Megalopolis
Viene proprio da dirlo, il futuro è qui. Almeno, è questa la sensazione indotta dalla visione di Megalopolis, progetto a cui Francis Ford Coppola ha lavorato per più di tre decadi. Si pensi quel che pare, d’altra parte la critica ha pensato e detto già tutto: nel mentre il piatto piange, la distribuzione latita e l’inclassificabile fiaba futiribile del regista de Il Padrino atterra col fragore di 120 milioni di dollari (tutti di Coppola, bontà sua) schiantati al suolo di una sala vuota. Pazienza: in tempo di onde corte, chissà che Megalopolis non sappia rifarsi tra piccolo e piccolissimo scherzo, che pure non rendono giustizia a tanto ardimento.
Megalopolis è, prevedibilmente, un oggetto alieno nel paesaggio filmico d’oggi: un film giovane, impudente, perfino immaturo, sia pure realizzato da un dinosauro della New Hollywood. La visione coppoliana di una romanità moderna, tecnologica, decadente, è intrisa di suggestioni note: su tutte certo Ayn Rand e La Fonte Meravigliosa, col suo carico di superomismo intellettuale e art déco; ma anche il Caligola di Tinto Brass, con Shia LaBoeuf che danza come Malcolm McDowell; e poi Metropolis di Fritz Lang, nel volo della fantasia come nell’indifferenza a derive ideologiche; senza contare Chanel (Coco e la pubblicità), l’iconografia massonica e lo slancio futurista, la psichedelia e il clockpunk; il cinema muto da Murnau a Vertov; in calce Shakespeare, Marco Aurelio e Catullo. L’enciclopedismo di Megalopolis è incontenibile, il suo virtuosismo ha mille volti, le sue troppe anime sono quelle di un regista incapace di ripetersi.
Fabio Cassano
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