cinema

David Lynch, al termine della notte

Iniziamo dal principio, ovvero dalla fine.

Dale Cooper ha ritrovato Laura Palmer, o forse una delle infinite Laura possibili; crede di averla finalmente salvata da un delitto ineludibile, ma si sbaglia. Sbagliato non è il luogo, bensì il tempo; l’urlo di Laura graffia la notte, il padre Leland la chiama disperato.

Così David Lynch ci accomiatava dall’epopea fantastica di Twin Peaks, cambiando come già un tempo la fiction televisiva per come il mondo l’ha sempre intesa, rifiutando di darci e darsi risposte: non ne ha la vita, figuriamoci l’arte.

Fuori, nel nostro mondo, Hollywood brucia.

Lynch non è mai stato un regista comune: lo sapeva bene Kubrick, che alle mille torture inflitte agli attori di Shining aggiungeva la visione ripetuta di Eraserhead; lo sapeva Lucas, che sulla scorta di quel capolavoro giovanile sperava di affidargli Il Ritorno dello Jedi; lo sapeva De Laurentiis, che per farsi perdonare lo scempio produttivo di Dune gli produsse il personalissimo Velluto Blu; lo sapeva anche Mel Brooks, che ai due migliori David del decennio (lui e Cronenberg) aveva affidato rispettivamente The Elephant Man e La Mosca (tacendo il proprio nome, ché a nessuno venisse in mente di ridere); ambedue melodrammi sulla mostruosità, dolenti e violenti senza alibi; John Merrick piange e sorride sotto il peso della sua deformità, raccoglie tutta la vita e il poco amore che trova, ma al vivere da mostro preferisce morire da uomo.

Fabio Cassano

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