E i passeri ridono: Gene Hackman
Storiella: c’è un giovane portiere all’Essex House di New York. Vorrebbe fare l’attore, ma non ne è sicuro; fatto sta che la sua carriera non decolla. Davanti all’hotel parcheggia il suo vecchio comandante, un fantasma del periodo nei Marines; il ragazzo dovrebbe prendergli i bagagli, ma è distratto; l’ufficiale lo fredda: «Eri un buono a nulla e sei ancora un buono a nulla».
Il giovane si chiama Gene Hackman; il comandante, vallo a sapere.
Fast forward: Texas, 1967. Hackman è sul set di Gangster Story; Arthur Penn dirige, Godard si è rifiutato, Warren Beatty produce e la Warner non sa che farsene. Nessuno degli astanti sa di aver piazzato una bomba ai piedi della vecchia Hollywood: dopo, il cinema americano non sarà più lo stesso. Hackman è Buck, il fratello ignoto e sfigato di Clyde, quello che la leggenda non ricorda; se Clyde (Beatty) è il volto seducente e ribelle del crimine, Buck ne è quello ridanciano e picaresco – quello che se crivellato sanguina peggio.
Il film è un successo, la storia del cinema apre giocoforza un nuovo capitolo; Hackman rimane al palo.
Meglio tirare avanti: New York, 1971. Hackman sta per mollare, tutti i suoi amici ce l’hanno fatta e lui no: mentre lui era in Texas, il suo coinquilino Dustin Hoffman si è Laureato; lui è rimasto indietro, sembra che il suo momento non arrivi mai.
La Provvidenza ha una Calibro 9: Hackman è lo sbirro corrotto “Popeye” Doyle ne Il Braccio Violento della Legge. È l’ultima spiaggia del regista William Friedkin, che non osa a credere in lui. Hackman non riesce a far suo il personaggio: non gli appartiene, lo odia, quello non è lui.
Friedkin decide che Hackman deve arrabbiarsi, fosse anche col regista; Hackman abbozza, poi va sul set e si arrabbia sul serio. Il resto è storia: Il Braccio Violento della Legge cambia il volto del poliziesco, incendia il dibattito nell’Italia di Piombo, sfonda i botteghini e si porta via cinque Oscar, tra cui miglior film (altri tempi); uno naturalmente è per Hackman, finalmente schizzato in alto, stella tra le stelle. Da lì in poi lui e Friedkin si parleranno appena, ma poco importa: la leggenda è fatta. “Popeye” tornerà nel ’75 per il seguito, stavolta diretto da John Frankenheimer: si pensi quel che pare, ma il poliziotto è ancora marcio.
Alla deriva: 1973, un luogo sperduto della California; il film è Lo Spaventapasseri di Jerry Schatzberg. Hackman e Al Pacino sono il duo che non ti aspetti: una stranita coppia beckettiana, in una provincia che pare uscita da un’immane devastazione. Godot non arriva e loro non aspettano: vanno a Est verso Pittsburgh, cercano il futuro che li ha bidonati a Ovest.
Al Pacino è Lion, un neo-padre in fuga che vuol rimettere le cose a posto; Hackman è Max, ex- galeotto col sogno di aprire un autolavaggio – perché si sa, «Tutte le macchine si sporcano». Finisce male: Lion perde la brocca, Max promette di salvarlo ma può a stento salvare se stesso. Ha solo spiccioli in una scarpa per il pullman, ma non si perde d’animo: Lion gli ha fatto scoprire se stesso. Max non è un criminale né un sognatore né un pazzo: solo uno spaventapasseri, di quelli che non spaventano ma divertono. Max batte la scarpa sul bancone, e i passeri ridono.
Eggià, perché sa anche far ridere: a intuirlo è Mel Brooks – chi altri?
Frankenstein Junior è la rivelazione comica: Hackman è il vecchio cieco che accoglie il Mostro, lo maltratta quanto più ne ha cura, maneggia i sigari con smorfia bambinesca. Dieci minuti, ma tutti esilaranti: la Creatura fugge a digiuno, col dito scottato e un pessimo umore; Hackman lo insegue interdetto: stava per fare l’espresso.
Siamo ancora nel ’74, ma stavolta c’è poco da ridere. Hackman è a San Francisco per La Conversazione di Coppola. L’attore è irritabile: ora che ha imparato a divertirsi, il personaggio di Harry lo costringe a fare il misantropo. Fa niente: Coppola non è Friedkin, sa già che lui è quello giusto. C’è un nastro magnetico (lo stesso che usavano al Watergate, neanche a farlo apposta), una conversazione origliata, forse un delitto; nessuno sa niente, intanto il cesso trabocca sangue.
Harry è paranoico: deve esserlo, giacché la paranoia è il suo lavoro, ma ormai fa parte di lui; non sa risolversi, cerca le tracce di un orecchio indiscreto ora che il suo ha fallito; alla fine restano solo macerie, non c’è che da suonare il sax. Qualcuno grida al clone di Blow-Up, ma non importa: La Conversazione è un capolavoro. Se lo ricorderà pure Tony Scott, che vorrà a tutti i costi Hackman per Nemico Pubblico, erede spirituale dell’opera maestra di Coppola.
La risata ritorna nel ’79: Gene Hackman è Lex Luthor, l’arcinemico di Superman nel film di Richard Donner. È una pacchia: per Hackman è vero amore, il suo Luthor è buffo, crudele, brillante e rozzo, colorato come un fumetto della Silver Age. Il primo grande film di supereroi ha il suo primo, grandioso villain: la gioia del recitare è autentica, il tratteggio è da vaudeville, le tavole illustrate hanno vinto.
Luthor ritornerà l’anno dopo, per quell’ircocervo di Superman II (ma solo nelle scene girate da Donner) e nell’83, per il quarto sciagurato film della saga: se il film arranca e si schianta, per Hackman non sembra essere passato un giorno.
Non basterebbe un intero numero di rivista, per compendiare il silenzioso viaggio di Gene Hackman nel cinema che vale amare. Ci si lasci almeno il West: quello de Gli Spietati, con Hackman nemesi pragmatica di Clint Eastwood, sceriffo che sa parlare ma spara anche meglio; tra tutti i momenti da ricordare, quello da antologia è un monologo accanto a una cella, mentre fuori infuria il temporale.
La morale? Una pistola è bene, due pistole è meglio.
O ancora la Grande Mela: stavolta quella de I Tenenbaum, il film che ha consacrato Wes Anderson. Hackman è Royal Tenenbaum, il patriarca di una famiglia allo sbando, comandante di una nave che affonda; i figli si salvano da se stessi, la crociera della vita è salva, il capitano affonda con la nave.
Nessuna malinconia: i passeri ridono ancora.

Fabio Cassano
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