The Shrouds – Segreti sepolti
Titolo originale: The Shrouds
Regia: David Cronenberg
Produzione: Canada/Francia, 2024
Durata: 119′
Cast: Vincent Cassel, Diane Kruger, Guy Pearce, Sandrine Holt, Gray Foner, Myrna Slotnik
Il ricco imprenditore Karsh (Vincent Cassel) ha costruito un singolare impero economico: una catena di cimiteri di ultima generazione, grazie a una tecnologia di sua invenzione che, con uno speciale sudario elettronico, permette il monitoraggio continuo dei sepolti. Karsh non si dà pace dalla perdita dell’amatissima moglie Becca (Diane Kruger) di cui monitora costantemente la salma tramite la sua invenzione. Quando uno dei suoi cimiteri viene preso d’assalto, la ricerca dei colpevoli fa sì che l’uomo, insieme alla cognata Terry (Kruger), gemella della defunta moglie, e del programmatore ed ex-cognato Maury (Guy Pearce) entri in un vortice di mistero tra attacchi informatici, gruppi di protesta e spionaggio industriale, nella cui indagine il ricordo della consorte innesca una dinamica pericolosa.
Nulla di più facile che accostarsi a The Shrouds con l’aspettativa dell’opera-testamento. D’altra parte è almeno da Cosmopolis (2012) che David Cronenberg pare voler mettere in scena la propria morte, ed è altrettanto innegabile come sia Viggo Mortensen in Crimes of the Future (2022), sia Vincent Cassel in questa sua nuova opera, siano a tutti gli effetti un doppio del maestro canadese.
La voglia di epitaffio è tanta, per un film che parla di morte e morti con la naturalezza di chi ha già la fine in vista, che ha al suo centro il cadavere come memoria ultima di e per i vivi. Ci si sbaglierebbe, dal momento che The Shrouds è tutt’al più un testamento teorico di un regista tornato ad abbracciare il proprio immaginario, forte della consonanza con uno Zeitgeist che dal maestro della “Nuova Carne” sembra aver appreso tutte le lezioni sbagliate.
Giacché di manifesto teorico si tratta, The Shrouds è quanto di più vicino Cronenberg abbia fatto alla vecchia scuola dello sguardo: vicinissimo, per ossessioni e linguaggio, a Blow-Up di Antonioni, il film è non tanto una riflessione sulla morte, quanto sulla realtà di chi vive ancora, sull’impossibilità di mappare il vero, di separare alchemicamente la realtà dal groviglio delle sue rappresentazioni; il mistero non è qualcosa da risolversi, ma col quale dovere – per quanto si può – convivere serenamente.
Cronenberg infila nel discorso pezzi vecchi e nuovi del suo immaginario: mutazioni chirurgiche, raddoppiamenti, lo spazio netto e astratto dell’amata Toronto quale “Interzona” di un mondo alla deriva; digitale e carnale coesistono e si confondono, sullo sfondo di terrorismo e spionaggio di corporazioni ombra. Non c’è da credere a niente e in niente, i morti marciscono e i vivi si arrabattano.
Le manie sono anche quelle del tempo, dagli hacker russi e cinesi al revival brutalista, dall’ecoterrorismo alla generazione New Tech; su tutte l‘Intelligenza Artificiale che, a forza di deliri generativi, sembra mutare l’uomo e non se stessa in simulacro dell’umano. Il regista è straordinariamente a suo agio con le risorse tecniche e tematiche di questo nuovo mondo (almeno quanto era invece in impaccio nel romanzo Divorati), gioca con gli artifici del digitale, accosta la meme culture, va dritto al cuore putrido di una tele-presenza che è sempre più tele-assenza – assenza di noi, della fede che l’uomo poteva ancora avere in se stesso, della sua capacità di giudizio in un mondo di finzioni.
Lo credevamo trans-umano, post-umano, post-moderno e qualunque altro “post” venga in mente: e invece eccolo, Cronenberg, fin troppo umano, come un alchimista che cerchi di separare l’uomo dal suo riflesso. Lo fa anche con stile, quel suo stile che negli anni si è sempre più rarefatto, perseguendo un’austerità dell’immagine che nella sua schiettezza e precisione formale corteggia la potenza del geroglifico: impossibile non pensare a un altro grande moralista del cinema, a Paul Schrader che col suo Oh, Canada (già, appunto, il Canada) inchiodava l’uomo ai suoi fantasmi nello specchio del video, lontanissimo da qualsiasi velleità dell’immagine per sé.
Una clinica operazione formale, si direbbe dunque. Sbagliato: The Shrouds è a mani basse il film più lirico, più sincero, più melodrammatico dell’ultimo Cronenberg. Era dai tempi di M. Butterfly (1993) che il canadese non approcciava l’amore e il suo trauma con tanta verità: il mèlo è senza vergogna, la carnalità dell’amplesso ribalta la freddezza del sesso in Crash (1996), il ricordo non abbandona il senso tattile dell’amare.
Certo il vissuto fa la sua parte: il regista elabora la perdita dell’amatissima moglie Carolyn, scomparsa a 66 anni per un tumore; la morte, si sa, spegne una vita ma non un rapporto. La carne ricorda: noi amiamo i corpi che ci hanno stretti nel buio, i visi che abbiamo baciato, le bocche che ci hanno parlato o hanno taciuto. Amore e morte hanno sempre fatto parte del discorso di Cronenberg, ma quasi mai prima con una sincerità così evidente, così libera da ogni vezzo, così personale.
L’autobiografismo è spoglio e senza patemi; c’è anche spazio per il lascito spirituale, per quelle origini ebraiche che il regista riscopre senza patetismo; The Shrouds esprime senza più angoscia l’accettazione – questa realmente rabbinica – dell’esistenza quale mistero, da indagare quel tanto da poter vivere.
Al centro della piccola, affollata scena cimiteriale, gli attori danno il loro meglio: Diane Kruger è in stato di grazia nel triplo ruolo di Becca, Terry e Hunny (questa il suo avatar digitale), umanissima nell’incarnare una fisicità fragile, sofferente, dimessa e insieme crudelmente sensuale; Guy Pearce è la variabile impazzita, calibratissimo in un ruolo che minaccia a ogni passo di farsi caricatura.
Quanto a Vincent Cassel, poco da dire: è lui il vero araldo del regista, il suo doppio artistico e personale; Cassel distilla le forme minute del lutto, modella con scioltezza un personaggio che per naturalezza pare essersi scritto da solo, sublima in fragilità serafica una figura che, in mano ad altri attori e registi, sarebbe stata al più una parodia dei vari Bezos, Cook e Musk.
Insomma un rilancio dell’umano, questo The Shrouds, da un umanista indefesso quale Cronenberg – a lungo additato come un cinico macellaio dell’orrore. Che siano gli altri, tanto per cambiare, a celebrare la nuova carne: forse, nel mare di nuove carni di questo mondo, è ancora il caso di tenersi stretta quella vecchia, e amarla per quel si può.
Fabio Cassano
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