C’è ancora domani ovvero il tinello delle buone intenzioni
Roma, 1946. Delia, infelicemente sposata col violento Ivano, è in difficoltà con la figlia Marcella e il burbero suocero Ottorino; sogna di lasciare la borgata con l’amante di un tempo Nino e si consola con l’amica Marisa; l’incontro col soldato americano William e le manovre per sistemare Marcella con una famiglia del centro stravolgono la sua quotidianità; frattanto incombe il referendum per la repubblica, il primo a cui le donne sono ammesse a votare.
Giacché l’onda del successo, delle polemiche e delle lodi più o meno d’ufficio pare essersi posata, è forse possibile guardare lucidamente C’è ancora domani. Compito non facile, dato che l’esordio registico della comica Paola Cortellesi si è presentato da subito con l’intero pacchetto del cinema civile: i vari appellativi di opera necessaria, importante, urgente, la dovuta partecipazione al nobile tema della parità di genere, lo sfacciato richiamo al lascito neorealista – sul quale l’autoritratto continuo del cinema italiano pare essersi appiattito una volta per tutte. Assistere a C’è ancora domani è tanto per cambiare una missione civile, un dover essere dello spettatore, la cosa da fare pena l’esclusione dal dibattito che conta; in breve la solfa che la rinata cinematografia italiana (sempre sia lodata) propina da vent’anni in qua, premiandosi per le buone intenzioni.
Fabio Cassano
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