Il lavoro, i suoi caduti e i suoi feriti
Martedì 9 aprile: esplosione a trenta metri di profondità in una centrale idroelettrica a Bargi nel bacino di Suviana, Appennino bolognese. Quattro operai morti e tre ustionati. Tra i lavoratori deceduti, anche un settantatreenne pensionato che continuava a lavorare a partita iva. Martedì 7 maggio: cinque operai delle reti fognarie morti a Casteldaccia (PA), asfissiati dall’idrogeno solforato. Il contratto di appalto in base al quale eseguivano i lavori neanche prevedeva che facessero l’intervento che è stato loro fatale. Eppure sono stati costretti a farlo: senza mascherina o nessun’altra sorta di protezione. Sono le due ultime stragi sul lavoro avvenute in Italia: in mezzo a esse, la consueta liturgia del 1° Maggio, messe cantate e adunate di piazza che celebrano il lavoro come idealità ma mai hanno avuto impatto sulla realtà. Del lavoro.
Il lavoro che non c’è, che non c’è per tutti in egual misura, che diventa (o torna pericolosamente a essere) elitario ed ereditario, dunque bene di lusso; che è sottopagato, svalutato, discriminato… e che uccide, lì dove esso richiede quasi esclusivamente l’uso delle mani e la fatica fisica. Perché a volte, molte volte, quando lo si trova o per non perderlo, un lavoro con cui ci si sporca palmi dorsi e polpastrelli in prima linea, si è disposti a farlo anche senza le minime garanzie di sicurezza. Cantieri dove si costruisce e terre da arare: prima e dopo il 1° maggio ogni ano da molti anni su quei due fronti è sempre una macelleria.
Gianluca Vivacqua
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