Nel caso in cui a qualcuno sia sfuggito il generale declino dell’ordine liberale e lo svilimento dei diritti umani a livello mondiale, il partito di destra guidato da Orbán in Ungheria si è recentemente mosso in una direzione inequivocabile.
Il 14 aprile, infatti, l’Assemblea nazionale ungherese ha approvato a maggioranza una nuova modifica della Costituzione che comporta restrizioni sempre maggiori ai diritti civili, con particolare riguardo alla comunità LGBTQ+.
Le strette “illiberali” nell’Ungheria di Orbán non sono una novità: molti sono stati nel corso di questi ultimi anni gli emendamenti alla Costituzione, (dal 2012 ad oggi sono state circa 15 le modifiche). Ma non solo.
Il 18 marzo, per esempio, sono state approvate modifiche ad una legge del 2018 che regola il diritto di riunione e manifestazione nel Paese. La “furbizia” che ha scatenato le proteste e il risentimento di gran parte della popolazione, risiede nell’ordine “cronologico” con cui queste nuove modifiche alla Costituzione sono state apportate. Infatti, molti sostengono che gli emendamenti recenti non negano “esplicitamente” il riconoscimento dei diritti civili delle persone transgender e non è casuale.
Il governo Orbàn ha opportunamente operato una stretta sulla libertà di manifestazione prima di procedere con la modifica della Costituzione che si articola sostanzialmente in due punti caldi: la legittimità del matrimonio valida solo fra uomo e donna perché “l’essere umano è uomo o donna” e, in secondo luogo, l’introduzione del concetto per cui la tutela dei bambini ha la precedenza su ogni altro diritto fondamentale, eccetto quello alla vita.
Così facendo, con il primo emendamento si va a negare qualsiasi libertà di autodeterminazione di genere. Con la seconda modifica si va a creare una sorta di scudo normativo che, implicitamente, dietro la giustificazione della tutela dei minori, può andare a intaccare tutte quelle attività e libertà che il governo ritiene lesive del diritto del minore ad essere protetto. Nello specifico, molti hanno
pensato al Pride che dovrebbe tenersi il 28 giugno nella capitale e che potrebbe fattivamente essere ostacolato da quanto stabilisce la Costituzione o meglio, da una interpretazione restrittiva della stessa.
In effetti, si tratta di una manifestazione che (al pari di altre) le autorità possono vietare nella misura in cui si possa ragionevolmente presumere che arrecherà danno ai minori.
Altro strumento di “repressione autoritaria” è l’introduzione di tecnologie di riconoscimento facciale da parte delle forze dell’ordine nei confronti dei partecipanti a raduni, riunioni e manifestazioni.
A riprova della gravità dello stato di salute della democrazia ungherese, vi sono poi le preoccupazioni intorno alla paventata “sospensione della cittadinanza” (che è effettivamente il primo punto dell’emendamento) agli ungheresi che abbiano altri passaporti e che, a detta del governo, possono rappresentare quindi una minaccia per la sicurezza e l’ordine pubblico. Il rischio concreto è che si “abusi” di questa misura per reprimere il dissenso politico e fare gioco al governo
o agli amici del governo.
In ogni caso, bisognerà attendere che queste misure entrino effettivamente in vigore per comprendere quanti e quali saranno gli effetti e le ripercussioni sulla realtà politica ungherese, nonostante l’indignazione della Comunità internazionale che accusa Orbán di violazione del diritto comunitario.