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  • E i passeri ridono: Gene Hackman

    E i passeri ridono: Gene Hackman

    Storiella: c’è un giovane portiere all’Essex House di New York. Vorrebbe fare l’attore, ma non ne è sicuro; fatto sta che la sua carriera non decolla. Davanti all’hotel parcheggia il suo vecchio comandante, un fantasma del periodo nei Marines; il ragazzo dovrebbe prendergli i bagagli, ma è distratto; l’ufficiale lo fredda: «Eri un buono a nulla e sei ancora un buono a nulla».

    Il giovane si chiama Gene Hackman; il comandante, vallo a sapere.

    Fast forward: Texas, 1967. Hackman è sul set di Gangster Story; Arthur Penn dirige, Godard si è rifiutato, Warren Beatty produce e la Warner non sa che farsene. Nessuno degli astanti sa di aver piazzato una bomba ai piedi della vecchia Hollywood: dopo, il cinema americano non sarà più lo stesso. Hackman è Buck, il fratello ignoto e sfigato di Clyde, quello che la leggenda non ricorda; se Clyde (Beatty) è il volto seducente e ribelle del crimine, Buck ne è quello ridanciano e picaresco – quello che se crivellato sanguina peggio.

    Il film è un successo, la storia del cinema apre giocoforza un nuovo capitolo; Hackman rimane al palo.

    Meglio tirare avanti: New York, 1971. Hackman sta per mollare, tutti i suoi amici ce l’hanno fatta e lui no: mentre lui era in Texas, il suo coinquilino Dustin Hoffman si è Laureato; lui è rimasto indietro, sembra che il suo momento non arrivi mai.

    La Provvidenza ha una Calibro 9: Hackman è lo sbirro corrotto “Popeye” Doyle ne Il Braccio Violento della Legge. È l’ultima spiaggia del regista William Friedkin, che non osa a credere in lui. Hackman non riesce a far suo il personaggio: non gli appartiene, lo odia, quello non è lui.

    Friedkin decide che Hackman deve arrabbiarsi, fosse anche col regista; Hackman abbozza, poi va sul set e si arrabbia sul serio. Il resto è storia: Il Braccio Violento della Legge cambia il volto del poliziesco, incendia il dibattito nell’Italia di Piombo, sfonda i botteghini e si porta via cinque Oscar, tra cui miglior film (altri tempi); uno naturalmente è per Hackman, finalmente schizzato in alto, stella tra le stelle. Da lì in poi lui e Friedkin si parleranno appena, ma poco importa: la leggenda è fatta. “Popeye” tornerà nel ’75 per il seguito, stavolta diretto da John Frankenheimer: si pensi quel che pare, ma il poliziotto è ancora marcio.

    Alla deriva: 1973, un luogo sperduto della California; il film è Lo Spaventapasseri di Jerry Schatzberg. Hackman e Al Pacino sono il duo che non ti aspetti: una stranita coppia beckettiana, in una provincia che pare uscita da un’immane devastazione. Godot non arriva e loro non aspettano: vanno a Est verso Pittsburgh, cercano il futuro che li ha bidonati a Ovest.

    Al Pacino è Lion, un neo-padre in fuga che vuol rimettere le cose a posto; Hackman è Max, ex- galeotto col sogno di aprire un autolavaggio – perché si sa, «Tutte le macchine si sporcano». Finisce male: Lion perde la brocca, Max promette di salvarlo ma può a stento salvare se stesso. Ha solo spiccioli in una scarpa per il pullman, ma non si perde d’animo: Lion gli ha fatto scoprire se stesso. Max non è un criminale né un sognatore né un pazzo: solo uno spaventapasseri, di quelli che non spaventano ma divertono. Max batte la scarpa sul bancone, e i passeri ridono.

    Eggià, perché sa anche far ridere: a intuirlo è Mel Brooks – chi altri?

    Frankenstein Junior è la rivelazione comica: Hackman è il vecchio cieco che accoglie il Mostro, lo maltratta quanto più ne ha cura, maneggia i sigari con smorfia bambinesca. Dieci minuti, ma tutti esilaranti: la Creatura fugge a digiuno, col dito scottato e un pessimo umore; Hackman lo insegue interdetto: stava per fare l’espresso.

    Siamo ancora nel ’74, ma stavolta c’è poco da ridere. Hackman è a San Francisco per La Conversazione di Coppola. L’attore è irritabile: ora che ha imparato a divertirsi, il personaggio di Harry lo costringe a fare il misantropo. Fa niente: Coppola non è Friedkin, sa già che lui è quello giusto. C’è un nastro magnetico (lo stesso che usavano al Watergate, neanche a farlo apposta), una conversazione origliata, forse un delitto; nessuno sa niente, intanto il cesso trabocca sangue.

    Harry è paranoico: deve esserlo, giacché la paranoia è il suo lavoro, ma ormai fa parte di lui; non sa risolversi, cerca le tracce di un orecchio indiscreto ora che il suo ha fallito; alla fine restano solo macerie, non c’è che da suonare il sax. Qualcuno grida al clone di Blow-Up, ma non importa: La Conversazione è un capolavoro. Se lo ricorderà pure Tony Scott, che vorrà a tutti i costi Hackman per Nemico Pubblico, erede spirituale dell’opera maestra di Coppola.

    La risata ritorna nel ’79: Gene Hackman è Lex Luthor, l’arcinemico di Superman nel film di Richard Donner. È una pacchia: per Hackman è vero amore, il suo Luthor è buffo, crudele, brillante e rozzo, colorato come un fumetto della Silver Age. Il primo grande film di supereroi ha il suo primo, grandioso villain: la gioia del recitare è autentica, il tratteggio è da vaudeville, le tavole illustrate hanno vinto.

    Luthor ritornerà l’anno dopo, per quell’ircocervo di Superman II (ma solo nelle scene girate da Donner) e nell’83, per il quarto sciagurato film della saga: se il film arranca e si schianta, per Hackman non sembra essere passato un giorno.

    Non basterebbe un intero numero di rivista, per compendiare il silenzioso viaggio di Gene Hackman nel cinema che vale amare. Ci si lasci almeno il West: quello de Gli Spietati, con Hackman nemesi pragmatica di Clint Eastwood, sceriffo che sa parlare ma spara anche meglio; tra tutti i momenti da ricordare, quello da antologia è un monologo accanto a una cella, mentre fuori infuria il temporale.

    La morale? Una pistola è bene, due pistole è meglio.

    O ancora la Grande Mela: stavolta quella de I Tenenbaum, il film che ha consacrato Wes Anderson. Hackman è Royal Tenenbaum, il patriarca di una famiglia allo sbando, comandante di una nave che affonda; i figli si salvano da se stessi, la crociera della vita è salva, il capitano affonda con la nave.

    Nessuna malinconia: i passeri ridono ancora.

    ene Hackman è il vagabondo Max ne Lo Spaventapasseri (1973).

    Fabio Cassano

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  • “Hitler e Mussolini” di Bruno Vespa

    “Hitler e Mussolini” di Bruno Vespa

    Hitler e Mussolini: due uomini molto simili tra loro, entrambi protagonisti di un’irresistibile ascesa. Irresistibilmente attratti uno dall’altro, finiranno per suggellare una forte alleanza, che non mancherà di avere conseguenze pesanti per la storia del XX secolo. Entrambi hanno vissuto un’infanzia e una giovinezza molto triste, ma questo non è il solo punto in comune. Entrambi ebbero molte donne nella propria vita e quando salirono al potere furono trascinatori di masse come soltanto le figure più carismatiche della storia seppero essere. La figura femminile più importante nella vita del Führer fu Eva Braun, una giovane ragazza che lo amava e lo stimava per i suoi valori e per i suoi pensieri. Il Duce, invece, venne colpito dalla bellezza di Claretta Petacci, anche se prima si innamorò di Margherita Sarfatti, con cui ebbe una frequentazione molto importante.

    Le ideologie del nazismo e del fascismo, congiunte, partorirono la più grande tragedia e il più grande incubo dello scorso secolo: la Seconda Guerra Mondiale, che fu la loro fine. Al termine del conflitto, infatti, Hitler si suicidò nel suo bunker sparandosi alla testa, mentre Mussolini venne ucciso dai partigiani. Entrambi avevano cominciato la loro scalata al potere in maniera lenta: pochi voti, molto scetticismo. Conquistare le masse non riuscì certo loro in un giorno: ma alla fine la tenace volontà di dominio fu premiata e di certo tutto si può dire, nel loro specifico caso, tranne che un successo da demagoghi fu meno effimero.

    Bruno Vespa, al solito, tra momenti culmine (il delitto Matteotti, che fu uno spartiacque nell’Italia già avviata alla dittatura fascista) ed episodi eloquenti (la rabbia del Führer per la vittoria dell’afroamericano Jesse Owens che sporca le “sue” Olimpiadi berlinesi del ’36) getta un ponte tra passato e presente. Ormai la ricetta dei suoi libri prevede che la prima parte, riguardante il passato, venga trattata come una sorta di antefatto dell’attuale momento politico internazionale. Anche oggi la scena mondiale sembra dominata da grandi tiranni e demagoghi, in primis Trump e Putin. Due tizzoni ardenti – la guerra in Ucraina e quella in Medioriente – promettono (minacciano) una nuova deflagrazione bellica globale: in mezzo naturalmente c’è l’Italia, con Meloni e il suo governo. Che lavora per trovare un difficile equilibrio tra Ue e rapporti con le grandi potenze. Dovendo affrontare numerose difficoltà interne. Ma non ci sono solo gli attacchi frontali dell’opposizione, ancora priva di una sua compattezza però (leggasi campo largo): un pericolo ancora maggiore è rappresentato da cecchinaggi e malumori dentro la maggioranza. Il riferimento naturalmente è alla Lega, che a sua volta  soffre non poche perturbazioni al suo interno L’alleato più fidato per Giorgia Meloni resta sempre Forza Italia.

    “Hitler e Mussolini” di Bruno Vespa, Mondadori, 2025.

    Andrea Rizzatello

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  • Francesco Di Bella  “Acqua Santa” –  Ed. Musicali La Canzonetta/La Canzonetta Records

    Francesco Di Bella  “Acqua Santa” –  Ed. Musicali La Canzonetta/La Canzonetta Records

     Partenope è Napoli. Nei suoi linguaggi, nei suoi colori, nelle gesta e dinamiche in chiaroscuro, tra mito e poesia, anime dannate e luce, eterna lotta tra amore e male. Dopo “O’Diavolo”, pubblicato nel 2018, il songwriter Francesco Di Bella giunge al suo quinto album da solista, in cui canta l’amore come atto politico, nelle sue sfaccettature, e come dialogo, intimista e di confronto, tra ombre e bagliori di luce. Il front man dei 24 Grana (freschi di celebrazioni per il trentennale di carriera artistica), spazia nella sua ricercatezza, la diffonde e irradia, affidandosi alla suadente voce di Alice, anima dei True Collected, per dar forma, anima e voce, tra riverberi quasi tribali, etnici, ed espressività popolare a un dialogo diretto, semplificativo, ma ammaliante. Ha il ritmo di un cantico la ballad al piano Menamme ‘e mmane: la fatica, la difficoltà, ritrovano armoniose la speranza. Piccolo gioiello è Canzoni, dove la scrittura si fa leggera, veritiera, ma a tratti anche cupa: è l’amore che avvisa, allerta, e vuole liberarsi dalla routine, elegantemente soffiato su note di una ballata, specchio ancora delle tante dinamiche dell’amore. La penna è poetica, ma eclettica: Di Bella, vera anima da cantautore, dipinge quasi da paesaggista Miez ‘a via, cuore che esce, va per strada, con la chitarra al collo, e ad agni angolo, tra arpeggi e giri delle sei corde, trova l’amore e lo descrive nel suo perenne misto di gelosia e amarezza. In questo fragore dipinto di amore ed enfasi lo spazio-sguardo è alto nell’atmosfera jazz di N’a ta Luna, mosso come onde del mare, virtuoso, ma anche creativo, idealista. Acqua Santa chiude il cerchio magico, in un elegante e soft pop cantautorale, basico, essenziale ma intenso, che guarda e stupisce, ammalia e coinvolge, disegna e illustra, mentre esprime note. La strada, firmata in questo progetto dai testi di Di Bella e le musiche di M. Giudici, è un percorso multiforme, all’interno delle mappe dell’amore, intenso come riscossa, rivolta, che scuote e vuole ribaltare, con passione, finanche la vita quotidiana.  Un lavoro di poesia diversificata, narrata, che si eleva anche nei toni dell’attesa, dello sconforto: otto storie, che si sviluppano nell’ambito della tortuosa dinamica delle relazioni.  Potrebbero essere aneddoti, immagini, ma anche luoghi. Lì solo l’abilità artistica ma ancor più la peculiarità artistica della lingua napoletana può osare e arrivare.

    Sergio Cimmino

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  • Zdenek Zeman, un boemo italiano

    Zdenek Zeman, un boemo italiano

    Zdenek Zeman, nato a Praga il 12 maggio del ’47. Figlio di un primario ospedaliero e di una  casalinga. Nipote da parte di madre di Čestmír Vycpálek allenatore della Juventus prima dell’era Trapattoni: è stato lui a trasmettergli la passione per il calcio. Nel ’68, all’epoca dell’invasione sovietica a Praga, si trasferisce in Italia dove, dopo aver acquisito la cittadinanza, si laurea all’Isef di Palermo. Qui comincia l’attività di docente di educazione fisica.

    Sempre a Palermo conosce sua moglie e inizia ad allenare.

    Insieme a Vinicio, Viciani e Sacchi Zeman è considerato uno degli importatori del calcio totale di Rinus Michels nel campionato italiano, anche se non completamente: il boemo, infatti, si è ispirato anche al calcio danubiano tipico della sua terra, la grande scuola dell’Est Europa.

    Diverse le sue esperienze e  passioni sportive prima dell’approdo al calcio: hockey su ghiaccio, pallavolo, pallacanestro, pallamano, nuoto e atletica.

    La consacrazione la trova sulla panchina del Foggia, che porta dalla serie B alla A. Il triennio 91-92, 92-93 e 93-94 è il più bello nella storia del Foggia in massima serie ma anche di tutta la storia del club pugliese, che arriva a sfiorare la qualificazione  in Coppa Uefa.

    Ciccio Baiano, Giuseppe Signori e Roberto Rambaudi il tridente dauno che esalta il modulo del tecnico boemo.

    In precedenza Zeman aveva portato il Licata dalla C2 alla C1.

    Dopo la prima esperienza foggiana allena la Lazio per tre stagioni: ottiene un secondo e un terzo post. Poi ancora Roma, ma con un cambio di sponda:  sulla panchina giallorossa due anni,  quarto e quinto posto.

    In Campania prima a Napoli dove viene esonerato dopo poche partite e una stagione e mezzo a Salerno.

    Diverse brevi esperienze in Turchia,  Svizzera e Serbia.

    Con il Pescara vince il campionato di serie B nella stagione 2011/12. Qui lancia Insigne, Immobile e Verratti.

    Alla fine degli anni ’90 Zeman diventa il grande accusatore del sistema calcio.

    Nel mirino ha soprattutto la Juventus, che accusa di usare prodotti dopanti. Diventa così il paladino della lotta al doping sportivo. Ma non senza pagare prezzi salati: sono le sue fortune in panchina a farne le spese.

    Nell’autunno 2009, interrogato circa il possibile coinvolgimento del Lecce nei fatti di Calciopoli, il boemo accusò Luciano Moggi di  averne minato la carriera: contestò nello specifico presunte manovre messe in atto dall’ex dirigente juventino allo scopo di provocarne l’esonero, precisamente ai tempi della Roma, del Napoli e della Salernitana dalle quali il tecnico era stato licenziato rispettivamente nel 1999, 2000 e 2002. A detta di Zeman, la fine sfortunata di quelle avventure sarebbe stata ascrivibile alle accuse da lui stesso sollevate contro il club torinese nel 1998. Ad Avellino invece a salvarlo dall’esonero fu l’antica amicizia col presidente Casillo.  

    Dal momento che Moggi, in risposta alle accuse di Zeman, ne mise in discussione le effettive capacità di gestire lo spogliatoio, e dichiarò che lì era da cercarsi la causa dei suoi vari esoneri, Zeman sporse una querela, ritenendo che l’affermazione costituisse atto diffamatorio nei propri confronti; la giustizia darà ragione all’ex dirigente bianconero nel novembre 2012.

    Attualmente il boemo si trova in terapia intensiva neurologica, dopo aver accusato un deficit di forza e problemi nel linguaggio, sintomi compatibili con un’ischemia cerebrale. Le condizioni sono stabili, ma resta sotto stretta osservazione.

    Già lo scorso ottobre, Zeman aveva avuto un attacco ischemico e sei mesi prima si era sottoposto a un’operazione al cuore con l’inserimento di quattro bypass.

    Stefano Marino

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  • Accordo Usa-Ucraina: cosa rivela l’interesse strategico per le terre rare

    Accordo Usa-Ucraina: cosa rivela l’interesse strategico per le terre rare

    Da una prospettiva di carattere generale, l’instabilità politica di un paese e dello scenario internazionale spinge tendenzialmente all’occupazione dei territori e all’approvvigionamento delle risorse.
    Questo è tanto più vero quando si viene al caso specifico dell’Ucraina, che in questi ultimi giorni è al centro del dibattito pubblico in relazione ai negoziati avviati su iniziativa americana per portare a un cessate il fuoco e all’eventuale conclusione del conflitto in corso. Uno dei nodi centrali delle trattative riguarda proprio le risorse e le materie prime ucraine, oggetto principale dell’attenzione del neopresidente Donald Trump.
    Un’attenzione rivolta alle cosiddette “terre rare” che è sintomo di un’attenzione particolare al territorio, secondo una dinamica che accresce la competizione politica fra le potenze coinvolte e che riversa i suoi effetti sullo scenario globale e internazionale.
    Se, infatti, diamo per scontata la forte rilevanza strategica e geopolitica che rivestono le risorse del sottosuolo di cui l’Ucraina è ricca, si evince facilmente come e perché gli Stati Uniti tentino in ogni modo di accaparrarsele al netto del rinnovato disimpegno americano nel mondo, a fronte di una Cina sempre più assertiva, di un’Europa in via di sgretolamento e di una Federazione Russa che, territorialmente parlando, ha visto negli anni la sua potenza continentale e la sua sicurezza
    erodersi sempre di più. In simile una logica competitiva, con un ordine internazionale sempre più precario, il discorso sulle “terre rare” assume una rilevanza multiforme: energetica e tecnologica, geopolitica e strategica in un’ottica securitaria, ma anche nel settore degli investimenti e della cooperazione.
    Nello specifico quando si parla di terre rare si fa riferimento a un gruppo di 17 elementi chimici che comprendono 15 lanthanidi più due elementi che sono scandio e ittrio, che si rivelano fondamentali per la produzione di dispositivi tecnologici avanziati come batterie ricaricabili, pannelli solari, ma anche per applicazioni militari come missili, radar e sistemi di comunicazione. La denominazione “rare” non fa tanto riferimento alla loro concentrazione quanto alla loro difficile estrazione. Molti di questi elementi sono infatti particolarmente dannosi per l’ambiente e pericolosi quando si tratta di manipolarli.
    Di seguito la rappresentazione di una scheda tecnica riguardante le terre rare, per comprenderne le basilari caratteristiche, i vantaggi e gli svantaggi della loro estrazione e la loro applicazione.

    Scheda tecnica: Terre rare

    1. Composizione e Nomi
       Lantanidi (15 elementi):
    2. Lantanio (La)
    3. Cerio (Ce)
    4. Praseodimio (Pr)
    5. Neodimio (Nd)
    6. Promezio (Pm)
    7. Samario (Sm)
    8. Europio (Eu)
    9. Gadolinio (Gd)
    10. Terbio (Tb)
    11. Disprosio (Dy)
    12. Olmio (Ho)
    13. Erbio (Er)
    14. Tulio (Tm)
    15. Itrio (Y)
    16. Lutezio (Lu)
       Altri 2 elementi:

    o Scandio (Sc)
    o Ittrio (Y)

    1. Proprietà chimiche e fisiche
       Alta reattività: La maggior parte delle terre rare reagisce facilmente con ossigeno e acqua.
       Conducibilità elettrica: Hanno ottime proprietà per la conduzione elettrica.
       Magnetismo: Molti di questi elementi sono utilizzati per produrre magneti permanenti ad alte
      prestazioni.
       Resistenza alle alte temperature: Alcuni elementi, come il neodimio e il samario, sono resistenti a temperature elevate e sono usati in applicazioni aerospaziali.
    2. Applicazioni
       Tecnologie di energia rinnovabile:
      o Pannelli solari.
      o Turbine eoliche.
      o Batterie per veicoli elettrici (come il litio-ione).
       Elettronica:
      o Schermi LCD.
      o Dispositivi ottici (fibra ottica, laser).
      o Batterie ricaricabili.
      o Hard disk e altre memorie.
       Applicazioni industriali:
      o Catalizzatori nelle raffinerie di petrolio (ad esempio, il cerio è usato nei catalizzatori).
      o Materiali per illuminazione a LED (ad esempio, l’europio).
       Difesa e tecnologia militare:
      o Missili, radar e altre apparecchiature di comunicazione avanzata.
      o Magneti per motori a bassa emissione di carbonio e tecnologie di armi ad alta precisione.
    3. Risorse e produzione
       Distribuzione geografica:
      o Cina è il principale produttore mondiale di terre rare, con circa l’80% della produzione globale.
      o Altri paesi con giacimenti significativi includono Australia, Russia, USA, e India.
       Estrazione:
      o Le terre rare vengono estratte principalmente da minerali come monazite e bastnasite, ma la loro estrazione è complessa e può essere dannosa per l’ambiente, a causa dell’uso di agenti chimici per separare i metalli.
    4. Vantaggi e svantaggi
      Vantaggi:
       Essenziali per la produzione di dispositivi tecnologici avanzati.
       Migliorano l’efficienza e le prestazioni in molte tecnologie.
      Svantaggi:
       La produzione è concentrata in poche regioni geografiche, creando rischi geopolitici.
       Le tecniche di estrazione sono dannose per l’ambiente (produzione di scarti radioattivi).
       La domanda crescente può portare a una scarsità di risorse.
    5. Innovazioni e ricerca
       Sono in corso ricerche per trovare sostituti delle terre rare in alcune applicazioni.

     Lo sviluppo di metodi di estrazione più ecologici e sostenibili è un obiettivo importante, poiché l’industria mineraria delle terre rare ha un impatto ambientale significativo.

    Secondo uno studio della Facoltà di Economia di Kiev, l’Ucraina controlla più di 100 importanti giacimenti di minerali essenziali, oltre a modeste riserve di petrolio e gas naturale. Il paese possiede inoltre depositi di 20 dei 50 minerali che l’US Geological Survey elenca come essenziali per lo sviluppo economico e la difesa degli Stati Uniti, tra cui titanio, litio, manganese, zirconio, grafite e le ambite terre rare.
    Nonostante al momento non siano state trovate riserve sfruttabili di terre rare in territorio ucraino, in ogni caso il paese è ricco di titanio (fondamentale per la produzione dei missili) e di altri giacimenti soprattutto nella regione del Donbass. Di fatti, come si evince dalla cartina che segue, la Russia controlla già il 33% delle riserve di minerali ucraini come il litio.

    Gaia Serena Ferrara

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  • Il parere di uno scrittore di genere: Daniele Fontani

    Il parere di uno scrittore di genere: Daniele Fontani

    Ho conosciuto Daniele Fontani grazie a un’antologia in cui io sono presente assieme a un suo racconto. È stato lui ad aggiungermi su Facebook, poi a scrivermi dopo che aveva posto una domanda tecnica per un testo di spionaggio, da cosa è nata cosa e mi sono incuriosito sulla sua attività di scrittore, fintanto da scoprire che ci incrociammo più di una volta ma senza averci dato retta reciprocamente. Lo prometto, riparerò, e nel frattempo l’ho intervistato.

    Modestia o arroganza, quale scegliere?


    Credo che raramente l’arroganza sia frutto di una scelta razionale, ma piuttosto un modo inconsapevole di essere, amplificato dalle ambizioni e dalla voglia di affermarsi. Anche la modestia, quando è artificiale o quando sminuisce i propri meriti, rischia di diventare un atteggiamento negativo. Tra modestia e arroganza, però, preferisco la terza alternativa: la via dell’umiltà, imparare a riconoscere i propri limiti e accettare che è sempre possibile lavorare per migliorarsi. Fatto questo, credo che poi venga naturale rapportarsi agli altri con sincera modestia, senza creare false aspettative, né cercare di sminuire gli altri.


    La tua finale Mondadori preferita (fra quelle in cui sei presente)?


    Più che alle finali in sé sono molto legato alle manifestazioni all’interno delle quali si svolgono i premi letterari. Ognuna mi ha dato qualcosa di unico: le persone conosciute, i consigli ricevuti dagli scrittori più bravi, le emozioni e gli attimi prima dell’annuncio del vincitore (che generalmente non sono io, ma questo non è fondamentale…). Quindi questa domanda mi mette un po’ in difficoltà, perché le metto tutte sullo stesso piano. Forse, dovendone scegliere una, direi il Mystfest del 2021, quando per la prima volta sono
    riuscito ad arrivare in finale nel circuito Mondadori e ho visto da vicino tantissimi scrittori che fino ad allora per me erano entità lontanissime, quasi divine. Poi c’è anche il Festival del Giallo di Napoli, dove nel 2023 ho vinto con il racconto La forca, e dove si respira un’atmosfera davvero unica. E che dire del NeRoma? Insomma, è davvero difficile scegliere.

    Secondo te ha senso scrivere (racconti, romanzi…) in Italia e in un’epoca in cui la gente si fa problemi a comporre una mail con nel corpo del testo solo: “Ciao, come va”?

    Secondo me ha senso scrivere fintanto che c’è la possibilità, anche remota, che ciò che si produce sia interessante per qualcuno. Come autori, dovremmo lavorare prima di tutto per costruire storie capaci di regalare emozioni ai lettori, qualunque esse siano. Quindi direi che finché ci sono lettori vale la pena scrivere, non ne faccio una questione di numero. Sul cosa scrivere, sono un po’ combattuto: da un lato assecondare la tendenza del pubblico può portare a una produzione di testi scontati, l’uno uguale all’altro,
    mentre disinteressarsi dei gusti e delle esigenze del lettore rischia di rendere la scrittura di nicchia, e questo mi spaventa molto perché abbiamo tutti bisogno di leggere. Io ho la fortuna di potermi occupare di narrativa di genere dove si può mescolare intrattenimento e temi di denuncia, e lo considero un ottimo compromesso per andare incontro alle esigenze di svago dei lettori pur mantenendo un significato più profondo al gesto stesso di leggere.

    Kenji Albani

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  • Marzo Magno: “Casanova chi? Un mito… ma per la posterità!”

    Marzo Magno: “Casanova chi? Un mito… ma per la posterità!”

    Sembra che siano due le figure alla base del trionfo del mondo borghese nella storia: la prima è quella del mercante che, a partire dal Basso Medioevo, si fa pioniere del risveglio culturale dell’Occidente con i suoi viaggi d’affari che sono al contempo anche viaggi di esplorazione e di scoperta. Grazie a lui, Paesi lontani con i loro meravigliosi manufatti e i sorprendenti tesori diventano molto meno lontani. Non si può, in effetti, concepire il navigatore-esploratore moderno se non si parte dal prototipo del mercante medievale: con mentalità mercantile egli vuole esportare messaggi di civiltà e importare valori di civiltà. Dopo il mercante c’è, a partire dal Seicento, l’avventuriero che, in sé, ha certamente anche qualcosa del primo, di cui può rappresentare una filiazione. L’avventuriero è socialmente un camaleonte, quasi vocato ad azzerare le distanze nella scala sociale: nella sua persona vuole concentrare quanto c’è di più popolare e di più aristocratico, di più colto e di più volgare, di più sacro e di più peccaminoso  e quindi, perché no, di più morale e di più immorale .La summa tra tutti questi opposti sta nella sua variegata esperienza di vita, che di volta in volta lo farà ritenere un saggio, uno scaltro, un arbitro di eleganza, un imbroglione, una carogna. Personaggio che anticipa le rivoluzioni o ne sposa in pieno l’atmosfera, l’avventuriero incarna il concetto dirompente che i tasti per direzionare l’ascensore sociale sono le capacità trasversali: dallo sport al gioco d’azzardo alla letteratura alla scienza alla politica alla cucina tutto serve a costruire la propria fortuna. E se poi si aggiunge che la fortuna è donna (e conquistarne una spesso è la chiave per assicurarsi ulteriori fortune), entriamo in pieno nell’argomento Casanova. Avventuriero paradigmatico o paradigma di avventuriero come lo abbiamo tratteggiato, veneziano come Marco Polo, paradigma del mercante nel modo in cui lo abbiamo inteso. Non è un caso. Nel tricentenario della nascita ne parliamo con Alessandro Marzo Magno, veneziano anch’egli, giornalista e scrittore, autore di una fortunata biografia casanoviana uscita di recente. S’intitola semplicemente Casanova: pubblicata da Laterza nel 2023, è andata in ristampa l’anno scorso.

    Dott. Marzo Magno, per la prima domanda mi ricollego a un’altra ricorrenza recente: il centenario della nascita di Marcello Mastroianni, che fu grande seduttore perché prima di tutto fu grande gentiluomo. Possiamo dire che Casanova fu un Mastroianni fuori dallo schermo e che la scelta più felice per il protagonista del film di Fellini sarebbe stata proprio quella dell’attore de La dolce vita?

    Sinceramente non so se il paragone regge. Casanova alla fine dei conti è un personaggio malinconico, un uomo che, guardandosi allo specchio, sente il fallimento di non esser potuto diventare quello che gli sarebbe piaciuto diventare: non nobile e – al contrario di Mastroianni, mi verrebbe da notare – non famoso: all’epoca in cui visse non era lui il Casanova più conosciuto. Più di lui infatti lo era il fratello Francesco, pittore di battaglie. Quando il nostro Giacomo venne presentato a Caterina II di Russia, la prima cosa che la zarina gli chiese fu: “Siete per caso il fratello di Francesco?”. Per quanto riguarda il film di Fellini l’ho visto a pezzi, ma mi pare che il regista sia riuscito a cogliere l’intimità del personaggio. È stato bravo.

    Scrittore memorialista, storico, librettista improvvisato, impresario teatrale improvvisato, redattore di memorie scientifiche, esperto di numeri e di cabala: a suo modo Casanova si può definire anche un intellettuale?

    Era provvisto di una preparazione che gli consentiva di spaziare in più campi (la sua variegata produzione letteraria ce lo dimostra): ci sapeva fare con le parole, sapeva studiare gli astri, aveva un’interessante competenza nelle scienze in generale e possedeva conoscenze mediche che lo rendevano capace di curare se stesso (si curò da solo una brutta ferita da arma da fuoco) e le altre persone. Sembra che i suoi segreti fossero due: igiene e dieta.  Sempre in campo medico era in grado, inoltre, di confezionare ricette.

    Come si può davvero definire la donna per Casanova?

    In effetti, anche se è passato alla storia come seduttore implacabile e impietoso, Casanova era lungi dall’avere una visione per così dire spietatamente “materialistica” dell’altro sesso, predatoria e magari esclusivamente venale. Spessissimo nelle sue memorie usa la parola “amore” e si confessa (e si professa) “innamorato” delle sue donne (che a loro volta lo riamano). Anche se non siamo ancora in epoca romantica, Casanova non era assolutamente immune da un coinvolgimento che andasse ben al di là del semplice piacere carnale: la donna più importante della sua vita, la misteriosa Henriette (in realtà Jeanne-Marie d’Albert de Saint-Hippolyte), è da lui stesso definita “il più grande romanzo” mai vissuto. Condito da una grande dose di umanità è poi il rapporto con la sua ultima amante, Francesca Bruschini, una ragazza del popolo quasi analfabeta: per lei Giacomo prova simpatia, affetto e… incredibile a dirsi (il carteggio non mente), addirittura gelosia!

    “E la sventurata rispose”: che dire dell’impresa degna dell’Egidio manzoniano, compromettere una donna che si era consacrata al Signore? Forse il colpo più audace mai messo a segno dal nostro amatore?

    No. Nel catalogo di quelle che con la nostra moralità – ma non col metro della sua epoca –  chiameremmo “sconcezze” di Casanova ci sono cose anche più eclatanti, inclusi rapporti sessuali con minorenni. Marina Morosini, la monaca da lui sedotta, è una grande, preziosa parentesi nella storia amatoria di Giacomo: bella, raffinata, di famiglia blasonata, era stata “parcheggiata” in monastero seguendo un destino comune a quello delle altre fanciulle “cadette”, quelle, cioè, a cui non era toccato in sorte di essere le figlie da maritare (anche alle famiglie più facoltose, infatti, era possibile predisporre la dote per una sola figlia). Dentro le mura del monastero, però, lei e le altre ragazze come lei erano libere di trasgredire le regole come più a loro piacesse. Addirittura potevano permettersi di frequentare i casini, appartamentini riservati che nobili e gentiluomini avevano a disposizione – o che a essi potevano essere messi a disposizione – per i loro svaghi: tra essi, naturalmente, c’erano anche le amanti segrete. I casini abbondavano intorno alla basilica di San Marco.  In particolare, la Morosini incontra Giacomo nel casino dell’ambasciatore de Bernis, che si trovava a Murano, e poi in quello che Giacomo affitta vicino a San Marco.

    L’avventuriero nel Settecento, chi era costui (ma dovremmo parlare anche dell’avventuriera, una figura che si profila quasi parallelamente)?

    Quando giunge al culmine delle sue fortune si può in un certo senso definire come una sorta di evoluzione moderna del menestrello e del giullare delle corti medievali: un fantasista – ma anche un parassita, nel senso più antico del termine – bravo a intrattenere e a far uscire dal tunnel della noia i grandi aristocratici sotto la cui ombra egli viveva e prosperava. Ma può godere di un’influenza e di un’autorevolezza anche maggiori, che possono addirittura fargli guadagnare spazi da consigliere. All’inizio del percorso c’è quasi sempre un’esperienza di vita molto frastagliata, fatta di tanti viaggi, di tanti tipi umani conosciuti, di studi iniziati e interrotti, di carriere intraprese e poi chiuse frettolosamente, di abilità imparate non oltre una soglia di competenza utile a cavarsela. E a spacciarsi come esperti: l’avventuriero è davvero un sublime maestro dell’impostura, e la sua grandezza sta nel saper farla fruttare a lungo a fino ai massimi livelli. La chiave del successo, va da sé, è una grande varietà di capacità acquisite al livello base, che arricchiscono la sua galleria di “travestimenti”.      

    Gamberi e maraschino di Zara: la pietanza e la bevanda preferite di Casanova?

    Casanova, come sappiamo dalle fonti, viene alla luce in un periodo in cui la madre (l’attriceMaria Giovanna “Zanetta” Farussi, ndr) ha una grande voglia di gamberi.  Potremmo dire quindi che la passione di Casanova per questo crostaceo ha, in un certo senso, qualcosa di “aborigeno”. Pensando al pesce più in generale, comunque, il nostro non disdegnava lo storione. Le ostriche invece tornavano utili per giochi di seduzione. E, restando nel campo dei cibi solidi, egli non manca di manifestare  a più riprese il suo debole per i maccheroni (gnocchi di farina, conditi con burro e parmigiano) e i  formaggi, in primis il mascarpone. Quanto al maraschino, confessa di apprezzarlo non poco, ma forse la sua vera passione sul fronte dei beveraggi è il punch, che amava prepararsi con le sue mani: usava acqua calda, rum, zucchero, arance oppure limoni. Ovviamente parliamo solo di alcuni dei cibi preferiti da Casanova, vero e proprio “buongustaio della vita”. 

    Casanova e gli amici: era il librettista Da Ponte quello del cuore?

    Uomo aperto alle relazioni amorose, il nostro Casanova, ma più in generale alle conoscenze sociali: un naturale attrattore di persone, in fondo. Se era pieno di donne, insomma, di certo non era povero di amici. Ma forse Da Ponte poteva essergli particolarmente congeniale (quel che è certo è che Da Ponte lo adorava): erano entrambi due impenitenti, e  si trovavano bene tra loro, il presbitero e Casanova. Si incrociarono a Vienna e poi a Praga: la loro fu una frequentazione lunga anche se non continuativa, fondata anche e soprattutto sullo scambio di idee e culminata nella collaborazione che Casanova diede a Da Ponte nella stesura del libretto del “Don Giovanni”, quasi un ideale alter ego del veneziano.

    In chiusura senti un po’ questa, caro Giacomo: tu che, tra le altre cose, eri anche un cabalista rifinito, ti divertirai pensando che nel 1798, quando ti spegnevi, un altro Giacomo vedea la luce, in quel di Recanati. E sarebbe stato tutto il contrario di te, come personalità. 

    Gianluca Vivacqua

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  • Trump, Putin e il nuovo ordine mondiale: il vertice di Riad scuote l’Occidente

    Trump, Putin e il nuovo ordine mondiale: il vertice di Riad scuote l’Occidente

    Nonostante le promesse e le dichiarazioni fatte in campagna elettorale sulla fine della guerra in Ucraina, Trump non ha ancora trovato una soluzione, anzi, sta aprendo nuovi “fronti” interni. Di fatto, il Tycoon è riuscito ad infastidire i leader europei e Zelensky nell’arco di due settimane.

    Il vertice di Riad
    L’incontro tra i negoziatori americani e quelli russi avvenuto il 18 febbraio è solo il risultato della telefonata tra il 47esimo Presidente degli Stati Uniti ed il leader del Cremlino. A rappresentare le due potenze internazionali erano presenti Marco Rubio, segretario di Stato americano, e Sergei Lavrov, Ministro degli Affari Esteri russo. L’ex governatore della Florida si è fatto accompagnare da Michael Waltz, Consigliere per la Sicurezza Nazionale, e Steve Witkoff, che formalmente è l’inviato dell’amministrazione per il Medio Oriente, ma ufficiosamente è il negoziatore di Trump. Di fatto, oltre ad essere compagni di golf, sono amici da quando entrambi investivano nel settore immobiliare negli anni ‘80 ed è stato lo stesso Witkoff a negoziare l’accordo tra Israele e Hamas. Lavrov era accompagnato da Yuri Ushakov, Consigliere per la Sicurezza Nazionale, e Kirill Dmitriev, Capo del Fondo Russo per gli investimenti diretti. Di fatto, non
    erano presenti il Presidente ucraino Zelensky e l’inviato ufficiale di Trump per l’Ucraina, Keith Kellogg. Il meeting è iniziato appena il Principe e Ministro degli Esteri Faisal bin Farhan ed il Consigliere per la Sicurezza Nazionale sauidata Musaed al Aiban hanno abbandonato il tavolo ed hanno lasciato le due delegazioni. Durante le quattro ore di riunione gli argomenti trattati sono stati molti e, per le grandi personalità presenti, è facilmente ipotizzabile che non sia stata trattata soltanto la questione della pace in Ucraina, ma anche di possibili accordi commerciali futuri.
    Di fatto, questo incontro può essere considerato a tutti gli effetti la riapertura delle relazioni bilaterali tra le due potenze mondiali. Infatti il leader del Cremlino ha lodato l’amministrazione Trump dopo il meeting a Riad, per aver creato un’atmosfera amichevole e durante un’intervista a San Pietroburgo, Putin ha affermato: “Dal lato americano c’erano persone completamente differenti, che erano aperte al
    processo di negoziazione senza alcun pregiudizio e senza nessuna condanna di ciò che è stato fatto in passato”. Inoltre, non esclude un futuro incontro con il Presidente, ma non ha voluto specificare una data, anche per il lavoro che c’è ancora da fare sulla risoluzione ucraina. In aggiunta, il capo del Cremlino ha voluto sottolineare che i timori dei leader europei di essere esclusi dai negoziati sono
    infondati e che i due Paesi avevano questioni bilaterali da affrontare, come la scadenza del trattato “New START” sul controllo delle armi nucleari prevista per il 5 febbraio 2026, ma dal quale la Russia ha sospeso la sua partecipazione il 21 febbraio 2023. Come riporta il New York Times, Trump è nel bel mezzo del cambio di rotta più sorprendente della politica estera americana da generazioni, un dietrofront che stravolgerà l’attuale equilibrio internazionale. Infatti, fin dalla fine della seconda guerra mondiale, tutti i Presidenti americani avevano diffidato prima dell’Unione Sovietica e poi della Russia. Il Tycoon, però, sembra considerare il gigante
    dell’est come possibile Stato amico, dando il chiaro segnale che gli USA hanno smesso di isolare Putin per l’aggressione nei confronti dell’Ucraina e prima ancora della Crimea.


    La preoccupazione dei leader europei
    Dopo aver appreso del meeting tra le due delegazioni, i Capi di Stato della Francia e dell’Inghilterra hanno organizzato degli incontri con il Presidente Trump per discutere della pace in Ucraina. Il presidente francese Macron arriverà alla Casa Bianca il 24 febbraio e, secondo quanto affermato sui social, gli dirà: “Non puoi essere debole contro Putin. Non è da te, non è il tuo marchio di fabbrica,
    non è nel tuo interesse”. Nel mentre il Premier britannico Starmer è atteso per giovedì 27, ma non ha voluto condividere la sua strategia per affrontare Trump. Tuttavia, i diplomatici britannici hanno affermato di aspettarsi che sottolinei la disponibilità del Regno Unito a fare di più per la difesa dell’Europa, contribuendo con truppe a una forza di mantenimento della pace in Ucraina. Kim Darroch, ex ambasciatore britannico a Washington durante il primo mandato del Tycoon, ha affermato: “Trump non è il tipo che prova gratitudine, ma almeno riconoscerà che il Regno Unito è il Paese europeo più propenso ad accettare la sua idea di pace”. Tutto ciò ha attirato l’attenzione di Putin che li ha presi in giro dicendo: “Perché siete isterici?”.


    L’attacco di Trump a Zelensky ed il possibile accordo sulle terre rare
    Nonostante gli sforzi dei leader europei, il Presidente statunitense non ha una buona impressione di loro e lo si può intuire poiché ha affermato: “Ho sentito che adesso sono preoccupati di non avere un posto al tavolo dei negoziati. Ce l’hanno avuto per tre anni e per molto tempo anche prima. Tutto ciò poteva essere risolto molto semplicemente. Inoltre ha ripetuto per l’ennesima volta che l’invasione non sarebbe avvenuta se fosse stato presidente, ignorando il fatto che le forze sponsorizzate dalla Russia avevano condotto la guerra all’interno dell’Ucraina tutti e quattro gli anni del suo primo mandato. “Avevo potuto fare un accordo per l’Ucraina che avrebbe dato loro quasi tutta la terra”, ha detto senza spiegare perché non ha cercato di negoziare la pace quando era in carica. Oltretutto ha attaccato
    pubblicamente il Presidente ucraino dicendo: “Pensaci, un comico di discreto successo, Volodymyr Zelensky, ha convinto gli Stati Uniti d’America a spendere 350 miliardi di dollari, per entrare in una guerra che non poteva essere vinta, che non doveva mai iniziare, ma una guerra che lui, senza gli Stati Uniti e “TRUMP”, non sarà mai in grado di risolvere”.
    Tuttavia, come riporta il Washington Post, ciò potrebbe essere controproducente per l’attuale amministrazione americana. Infatti, il Segretario del Tesoro statunitense Scott Bessent avrebbe proposto al leader ucraino un accordo per continuare a ricevere finanziamenti. La proposta riguarderebbe le terre rare ed i materiali critici dell’Ucraina. Di fatto, la strategia sarebbe quella di legare l’economia e gli investimenti americani per salvaguardare il territorio ucraino da possibili invasioni o attacchi, descrivendola come “uno scudo a lungo termine” per Kiev. In effetti, si stima che l’Ucraina possieda una delle più grandi riserve al mondo di titanio e litio che attualmente non sono sfruttate. Si stima che collettivamente potrebbero valere trilioni di dollari, anche se al momento il loro valore preciso e la loro distribuzione nel Paese non sono noti al pubblico. La Commissione europea ha descritto l’Ucraina come una potenziale fonte di oltre 20 materie prime critiche, tra cui depositi di caolino, gallio, manganese e germanio. Sono anche di interesse per la Russia, con gli analisti che stimano che Mosca abbia sequestrato più di 12 trilioni di dollari di risorse energetiche ucraine, metalli e minerali, includendo petrolio e carbone. Una delle principali riserve di litio dell’Ucraina si trova a sole 10 miglia dalla prima linea.

    Matteo Boschetti

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  • OH, CANADA – I tradimenti

    OH, CANADA – I tradimenti

    Titolo Originale: Oh, Canada
    Regia: Paul Schrader
    Produzione: USA, 2024
    Durata: 95′
    Cast: Richard Gere, Jacob Elordi, Uma Thurman, Michael Imperioli, Penelope Mitchell, Kristine
    Froseth, Caroline Davhernas, Jake Weary

    Il regista Leo Fife (Richard Gere), noto per i suoi acclamati documentari di denuncia, vive da molti anni in Canada, dove si era recato in gioventù per evitare l’arruolamento per la guerra in Vietnam. Malato terminale e accudito dalla moglie Emma (Uma Thurman), Leo accetta di essere intervistato nella sua casa di Toronto da un regista suo ex-studente (Michael Imperioli), per la realizzazione di un documentario che celebri la sua vita e carriera di impegno civile; per il cineasta è l’occasione di fare i conti col passato, ma soprattutto di svelare la rete di bugie che egli ha costruito negli anni.

    Vi è senz’altro un che di testamentario in questo Oh, Canada, l’opera con cui Paul Schrader adatta il romanzo Foregone dell’amico Russell Banks (alla cui memoria il film è dedicato). Non è il solo caso, in un’epoca che vede i maestri lasciarci e pochi talenti prenderne il posto: si pensi a David Cronenberg, che quantomeno da Crimes of the Future pare voler mettere in scena una fine avvertita come imminente. Nell’ultimo decennio Schrader ha scartato a lato, indifferente alla temperie critica e teso ad affinare un raccontare per immagini il quale, a partire almeno da The Canyons e fino ai recenti First Reformed e Il Collezionista di Carte, si è fatta sempre più ieratica, rarefatta, all’inseguimento perenne di quel cinema “trascendentale” che il regista di American Gigolo e Mishima è stato tra i pochi a raggiungere; un cinema realmente calvinista quanto e più del suo autore, nella riflessione indefessa sulla colpa e su una salvezza da demandare a chi ne sa meglio.
    Non vi è forma di ammiccamento alcuno, in questo cinema fatto di silenzi e di pause: nessuna enfasi, nessuna concessione al virtuosismo, nessuna catarsi che una vita vera non possa dare. A Schrader non serve neanche più citare i maestri (Bresson e Ozu su tutti), non insegue il calco né la citazione, non ha più bisogno di magie per plasmare il suo piccolo teatro del mondo: bastano una stanza, pochi personaggi, una serie di ingannevoli flashback senza ombra di nostalgia, il bianco e nero come zona grigia tra presente e aoristo di una singola vita. Più di ogni cosa, il volto consumato di Richard Gere, da cui l’età ha finalmente cancellato ogni divismo residuo; lo avevamo lasciato dietro le sbarre in American Gigolo, per ritrovarlo ridotto al proprio indispensabile: ancora
    imperfetto, prigioniero, colpevole come il peccato, umanissimo nel gesto minimo di un attore che sa dare tutto proprio quando non ha più nulla da dimostrare. Alla parlata rauca e allo sguardo minuto di Gere tocca traghettare il racconto, segnare le tappe della confessione privata di Leon.
    “Non siamo peccatori in quanto pecchiamo, ma pecchiamo in quanto peccatori”: ce lo ricordava il cattolicissimo Abel Ferrara in The Addiction, e Schrader pare essere d’accordo. Leon sfata a ogni passo il mito che un’intellighenzia ottusa gli ha cucito addosso negli anni, l’olimpo dell’arte a cui non importa dei suoi adulteri, della Cuba che ha costeggiato senza raggiungere, della mitologica fuga verso il Canada e la libertà vera. Leon fonde e confonde, si proietta sulla scena delle vite passate, dà il cambio al suo giovane alter ego (Jacob Elordi) e infesta con la sua vecchiaia gli anni della giovinezza; mescola e duplica, rattoppa col presente un passato che pare sfuggirgli, crea doppi e gemelli, confessa e delira. Schrader rilancia, inventa il suo linguaggio e lo tradisce, gioca coi formati di ripresa, concatena immagini nelle immagini senza compiacimento.
    È una dichiarazione di intenti: la verità o niente.
    Nessuna vertigine: Oh, Canada non sa che farsene di giochi metatestuali, non corteggia il postmoderno, non mira alla potenza del falso. Vero credente, Schrader crede ancora all’importanza dell’immagine, sa il mistero sacro del filmare, conosce le perversioni del filmico. Al cinema si muore per sempre, la macchina cattura la vita che va via: la prossima generazione non avrà per forza pudore, non si fermerà di fronte all’atto di sparire, non resisterà al terrore di un mondo che non può riavvolgere.
    Sullo sfondo la frontiera del Canada, senza cancelli né clamori, un confine tutto sul passo di chi lo attraversa. La camera fissa congela un paesaggio indistinto, il country distorto dei Phosphorescent trasforma l’inno canadese in litania; Gere/Leon guarda in macchina e non ha nient’altro da dirci. Non serve altro per il testamento artistico, spirituale, umano di un regista vivo come Paul Schrader,
    il coraggio di lasciare al pubblico un’opera irrisolta e di non volerla risolvere. Nessuna liberazione, ci si libera da sé: non c’è alcuna Land of the Free se non quella dell’anima; che la si insegua, e così sia.

    Fabio Cassano

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  • Mauro Petrarca, il poeta cimiteriale

    Mauro Petrarca, il poeta cimiteriale

    Quando hai iniziato a suonare?

    Ero bambino, frequentavo le Scuole Medie. Ero molto incuriosito da un organo a mobile che c’era in casa ma avevo poca voglia di studiare. Mi dedicavo assiduamente alla musica, ma con approccio non canonico. In realtà, quello che mi piaceva era inventare melodie: troppo ambizioso per quella giovane età.

    Qual è stata la tua formazione musicale?

    Per anni ho studiato privatamente e da autodidatta: ho iniziato il percorso accademico, in Conservatorio, molto tardi. Per la formazione artistica, ha avuto un ruolo fondamentale il desiderio di sperimentare: composizioni strumentali, colonne sonore per cortometraggi e soprattutto la fusione tra musica e poesia.

    Potresti descrivere in poche battute la tua attività poetica citando i tuoi libri?

    Ho pubblicato due libri: “Testamento di un poeta cimiteriale” e “Cinquanta rime di morte”. I suddetti lavori sono desunti da anni di partecipazioni poetiche semi-estemporanee in programmi di RadioRai, Radio24, Radio Deejay. Si tratta di poesie ironiche, a tema funebre, commissionate dalle rubriche radiofoniche in base all’argomento del giorno (tra gossip, politica e attualità).

    Come definisci la tua musica, il tuo genere musicale?

    Direi che si tratta di una musica molto rispettosa del passato ma che si proietta verso il futuro: arcaico e sperimentale legano bene insieme. La musica antica ha il gusto del già
    sentito ma una fisionomia lontana, mentre le sperimentazioni sembrano meno legate alla storia e quindi non appaiono definite. Il difficile è sempre ricercare e trovare l’equilibrio tra le due cose.


    La tua musica o il tuo fare musica ha subito delle influenze?


    Ho amato tantissimi compositori e in ogni epoca ho identificato almeno un modello. Ma il lavoro che più mi rappresenta è il cd “Canzoniere Macabro”, e per questa produzione (alla quale ho lavorato per più di 5 anni) sicuramente i maggiori riferimenti sono stati Fabrizio De Andrè, Francesco Guccini, Roberto Vecchioni e Angelo Branduardi. Ma l’idea del disco tematico, a soggetto unico, deriva direttamente dallo splendido scenario del nostro glorioso rock progressivo.

    Il tuo lavoro è essenzialmente solista, quando collabori con altri artisti come gestisci il rapporto creativo?

    Spesso suono con altri, ho anche creato nel tempo dei collettivi di improvvisazione che includevano diverse forme artistiche. E’ un appuntamento fondamentale, quello del
    confronto e della condivisione. Anche se poi, per realizzare un singolo o un disco intero, purtroppo sono sempre costretto a tornare solista: le motivazioni sono molteplici ma
    soprattutto l’ottimizzazione dei tempi e dei costi di produzione.

    E come gestisci le differenze creative?

    Ho incluso molto spesso vari esecutori, nell’incisione dei miei brani. Una volta scritto tutto, il musicista o la cantante che intervengono difficilmente possono fare cose incoerenti poiché le coordinate del pezzo sono già ben evidenti. Se poi capita qualcosa che si muove autonomamente, può risultare anche un valore aggiunto: mi è capitato spesso, in concerti, con attrici e performer.

    Puoi raccontarmi la tua esperienza con il pubblico nel mondo underground e quello televisivo?

    Un artista deve misurarsi con tutte le facce della comunicazione. La prima considerazione che mi viene da fare è che il mondo underground e il mainstream hanno una tristissima cosa in comune: non pagano adeguatamente. Organizzare concerti e spostamenti, o preparare una performance da realizzare a favore di telecamera, di certo non è cosa da improvvisare con superficialità e quindi questa scarsa attenzione verso la retribuzione la trovo davvero disdicevole. Tra l’altro, è un atteggiamento che favorisce il dilagare del dilettantismo. Andando oltre questa pragmatica, direi che sono entrambi mondi da conoscere e frequentare. L’underground mi sembra un’ottima palestra formativa, mentre con la televisione si può affermare un carattere artistico: la TV non concede molto tempo ma lavora artisticamente su minutaggi limitatissimi, mentre una serata romana in un locale adibito a ricerche creative è il modo migliore per testare live quanto si va delineando nella nostra mente e nel nostro studiolo.

    Vorrei mi raccontassi del tuo progetto più significativo.

    Ho accennato prima al mio disco “Canzoniere Macabro”: è questo il mio lavoro più significativo e rappresentativo. Ha avuto una lunghissima gestazione, l’ho inciso
    interamente a casa mia coinvolgendo un considerevole numero di musicisti. Era un periodo di grande ispirazione e soprattutto ero ancora studente, senza impegni gravosi lavorativi. Montavo, smontavo, rimontavo tutto, provando combinazioni d’ogni sorta: le condizioni ideali per favorire il concepimento di un’operina d’arte. Vari brani di quel disco hanno poi avuto una storia radiofonica o televisiva e questo mi fa enormemente piacere: vedere in prima serata televisiva la mia ballata nera “Marta la cornacchia” è stato un piacevole schock per me, per i miei amici, per i familiari.

    Progetti futuri?

    Questa estate ho realizzato un singolo con relativo videoclip: “Sembro una bambola” (https://youtu.be/I4AXPTbvfWM?=W5YnHrLcd504x). La figura della bambola mi affascina quanto quella dello spaventapasseri: nel mio immaginario, è il simbolismo nell’accezione più alta. Ho dedicato molti brani al fantoccio di paglia, ora quindi è giunto il momento di mettere in campo una bella carrellata di bambole in musica: bambole di pezza, bambole rotte, bambole di porcellana e infine bambole gonfiabili…

    Oggi, Mauro Petrarca a 51 anni suonati, è insegnante di Educazione Musicale presso le Scuole Medie nelle quali ha avuto, a mio avviso, il coraggio e la
    determinazione, di portare negli Istituti Pubblici quelle che lui stesso ha definito l’informalità e l’improvvisazione musicale attraverso gli strumenti giocattolo e oggetti di riciclo a lui cari e utilizzati precedentemente nei suoi Laboratori musicali e interventi da Musicoterapeuta.

    È così che Castel di Sangro vanta la presenza di un Artista che, attraverso la sua profonda e intelligente ironia tratta temi e tematiche antiche turbolenti e dal
    fascino nero e ancestrale come quello della morte; di un Insegnante di Educazione Musicale presso gli Istituti pubblici che, con molta probabilità, verrà apostrofato come alternativo; e ancora quella di un Musicoterapeuta che insegna fuori e dentro la sua stessa Scuola di Musica da ben oltre15 anni, è Mauro Petrarca, noto anche al grande pubblico.

    Per tutti coloro che desiderano conoscere Mauro Petrarca lascio qui li link del suo personale sito web: www.mauropetrarca.it

    RINGRAZIO MAURO PETRARCA PER LA SUA GENTILE DISPONIBILITA’.

    Claudia Dell’Era

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