Giugno 2001. Pochi mesi prima dell’attentato alle Twin Towers mi trovavo ad affrontare la prima sessione dell’esame di Letteratura italiana. Col prof. Ordine avevo passato un anno straordinario, intensissimo: non ricordo di aver perso una sola lezione della parte monografica, dedicata al Decameron, con tanto di visioni pasoliniane integrative. Per l’esame stavo lavorando a un’ambiziosa idea, fare il riassunto di tutte le novelle di Boccaccio. Ma al momento di darlo ero ancora a metà dell’opera e così, di fronte allo sguardo fiero e disarmante del docente, in quell’afoso pomeriggio non seppi far nulla di meglio che “costituirmi”: la mia preparazione, dissi appena seduto, non copriva l’intero programma. “Apprezzo l’onestà”, tuonò con gentilezza. Arrivederci alla prossima. L’appuntamento, però, non sarebbe più stato con lui, ma con l’assistente.
Alla fine, avevo accumulato una montagna di scartoffie con le sinossi dei racconti che compongono le oltre 1000 pagine del capolavoro boccaccesco. Cartoncini, fogli, mezzi fogli e strappi a formare un malloppo improponibile. Ingestibile. Non ebbi mai più né la voglia né il tempo di riordinarli in una sorta di Cirannino a uso dei mei futuri colleghi, come mi ero proposto velleitariamente di fare. Eppure che conclusione utile sarebbe stata per una fatica titanica e, diciamolo pure, agli occhi dei più sostanzialmente inutile (perché non richiesta)! Non c’è nulla di peggio dell’inutilità dell’utile (meglio ancora: del rendere inutile ciò che sarebbe potenzialmente utile), e chi meglio di Ordine, autore celebratissimo dell’Utilità dell’inutile (però alcuni anni dopo i fatti qui raccontati), potrebbe capirlo? Chi, meglio di lui e di Rosalia Broccolo, la sua gentile compagna dedicataria del suddetto libro? Accumulare carta, se non si ha un’idea precisa del perché accumularla, è inutile, specialmente nella nostra società digitale. E vogliamo parlare dei libri, di quelli fatti di carta? In un’epoca in cui quelli davvero utili sembrano aver preso decisamente la strada della smaterializzazione, i tomi stampati, da aprire e compulsare secondo secolari protocolli, appaiono sempre più confinati alla fruizione di collezionisti estimatori, di inguaribili cultori dello studio matto e disperatissimo analogico: non è escluso che un domani diventino (anzi, tornino a essere, perché erano così nel Medioevo, prima dell’invenzione della stampa) un genere di lusso, materia per regali costosi, come quelli che si fanno a fini romantici. Di sicuro romantica fu la cornice libresca in cui nacque e prese quota la storia d’amore tra Rosalia e il Professore Inflessibile ma Dolce. Galeotti – oh sì galeotti – gli scaffali di quella perla di sapienza placidamente incastonata nel cuore dell’Unical, la Luim. Dove all’epoca Rosalia lavorava.
Rosalia, sappiamo da testimonianze dirette che il professore, così intransigente e severo con i suoi studenti, era un uomo amabilissimo nella sfera privata. Cos’altro ti senti di aggiungere al suo profilo ad “accesso limitato”?
Era un uomo dalla sensibilità fuori dal comune, molto tranquillo, anche se amava tantissimo viaggiare. Una persona oltremodo semplice, tra le mura domestiche. Assai dedito al lavoro. Credeva nei rapporti di buon vicinato. Poche le frequentazioni sociali – prediligeva amici sceltissimi, non dell’ambito universitario; per il resto cinema, passeggiate, la domenica spesso a Diamante (la sua città natale, ndr). Grande appassionato di animali: nella nostra abitazione di Rende a sentire la sua mancanza, oltre a me, ci sono anche cinque gatti e l’ “adolescente” di casa, il cane Chirone, ormai quattordicenne.
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