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  • Mauro Petrarca, il poeta cimiteriale

    Mauro Petrarca, il poeta cimiteriale

    Quando hai iniziato a suonare?

    Ero bambino, frequentavo le Scuole Medie. Ero molto incuriosito da un organo a mobile che c’era in casa ma avevo poca voglia di studiare. Mi dedicavo assiduamente alla musica, ma con approccio non canonico. In realtà, quello che mi piaceva era inventare melodie: troppo ambizioso per quella giovane età.

    Qual è stata la tua formazione musicale?

    Per anni ho studiato privatamente e da autodidatta: ho iniziato il percorso accademico, in Conservatorio, molto tardi. Per la formazione artistica, ha avuto un ruolo fondamentale il desiderio di sperimentare: composizioni strumentali, colonne sonore per cortometraggi e soprattutto la fusione tra musica e poesia.

    Potresti descrivere in poche battute la tua attività poetica citando i tuoi libri?

    Ho pubblicato due libri: “Testamento di un poeta cimiteriale” e “Cinquanta rime di morte”. I suddetti lavori sono desunti da anni di partecipazioni poetiche semi-estemporanee in programmi di RadioRai, Radio24, Radio Deejay. Si tratta di poesie ironiche, a tema funebre, commissionate dalle rubriche radiofoniche in base all’argomento del giorno (tra gossip, politica e attualità).

    Come definisci la tua musica, il tuo genere musicale?

    Direi che si tratta di una musica molto rispettosa del passato ma che si proietta verso il futuro: arcaico e sperimentale legano bene insieme. La musica antica ha il gusto del già
    sentito ma una fisionomia lontana, mentre le sperimentazioni sembrano meno legate alla storia e quindi non appaiono definite. Il difficile è sempre ricercare e trovare l’equilibrio tra le due cose.


    La tua musica o il tuo fare musica ha subito delle influenze?


    Ho amato tantissimi compositori e in ogni epoca ho identificato almeno un modello. Ma il lavoro che più mi rappresenta è il cd “Canzoniere Macabro”, e per questa produzione (alla quale ho lavorato per più di 5 anni) sicuramente i maggiori riferimenti sono stati Fabrizio De Andrè, Francesco Guccini, Roberto Vecchioni e Angelo Branduardi. Ma l’idea del disco tematico, a soggetto unico, deriva direttamente dallo splendido scenario del nostro glorioso rock progressivo.

    Il tuo lavoro è essenzialmente solista, quando collabori con altri artisti come gestisci il rapporto creativo?

    Spesso suono con altri, ho anche creato nel tempo dei collettivi di improvvisazione che includevano diverse forme artistiche. E’ un appuntamento fondamentale, quello del
    confronto e della condivisione. Anche se poi, per realizzare un singolo o un disco intero, purtroppo sono sempre costretto a tornare solista: le motivazioni sono molteplici ma
    soprattutto l’ottimizzazione dei tempi e dei costi di produzione.

    E come gestisci le differenze creative?

    Ho incluso molto spesso vari esecutori, nell’incisione dei miei brani. Una volta scritto tutto, il musicista o la cantante che intervengono difficilmente possono fare cose incoerenti poiché le coordinate del pezzo sono già ben evidenti. Se poi capita qualcosa che si muove autonomamente, può risultare anche un valore aggiunto: mi è capitato spesso, in concerti, con attrici e performer.

    Puoi raccontarmi la tua esperienza con il pubblico nel mondo underground e quello televisivo?

    Un artista deve misurarsi con tutte le facce della comunicazione. La prima considerazione che mi viene da fare è che il mondo underground e il mainstream hanno una tristissima cosa in comune: non pagano adeguatamente. Organizzare concerti e spostamenti, o preparare una performance da realizzare a favore di telecamera, di certo non è cosa da improvvisare con superficialità e quindi questa scarsa attenzione verso la retribuzione la trovo davvero disdicevole. Tra l’altro, è un atteggiamento che favorisce il dilagare del dilettantismo. Andando oltre questa pragmatica, direi che sono entrambi mondi da conoscere e frequentare. L’underground mi sembra un’ottima palestra formativa, mentre con la televisione si può affermare un carattere artistico: la TV non concede molto tempo ma lavora artisticamente su minutaggi limitatissimi, mentre una serata romana in un locale adibito a ricerche creative è il modo migliore per testare live quanto si va delineando nella nostra mente e nel nostro studiolo.

    Vorrei mi raccontassi del tuo progetto più significativo.

    Ho accennato prima al mio disco “Canzoniere Macabro”: è questo il mio lavoro più significativo e rappresentativo. Ha avuto una lunghissima gestazione, l’ho inciso
    interamente a casa mia coinvolgendo un considerevole numero di musicisti. Era un periodo di grande ispirazione e soprattutto ero ancora studente, senza impegni gravosi lavorativi. Montavo, smontavo, rimontavo tutto, provando combinazioni d’ogni sorta: le condizioni ideali per favorire il concepimento di un’operina d’arte. Vari brani di quel disco hanno poi avuto una storia radiofonica o televisiva e questo mi fa enormemente piacere: vedere in prima serata televisiva la mia ballata nera “Marta la cornacchia” è stato un piacevole schock per me, per i miei amici, per i familiari.

    Progetti futuri?

    Questa estate ho realizzato un singolo con relativo videoclip: “Sembro una bambola” (https://youtu.be/I4AXPTbvfWM?=W5YnHrLcd504x). La figura della bambola mi affascina quanto quella dello spaventapasseri: nel mio immaginario, è il simbolismo nell’accezione più alta. Ho dedicato molti brani al fantoccio di paglia, ora quindi è giunto il momento di mettere in campo una bella carrellata di bambole in musica: bambole di pezza, bambole rotte, bambole di porcellana e infine bambole gonfiabili…

    Oggi, Mauro Petrarca a 51 anni suonati, è insegnante di Educazione Musicale presso le Scuole Medie nelle quali ha avuto, a mio avviso, il coraggio e la
    determinazione, di portare negli Istituti Pubblici quelle che lui stesso ha definito l’informalità e l’improvvisazione musicale attraverso gli strumenti giocattolo e oggetti di riciclo a lui cari e utilizzati precedentemente nei suoi Laboratori musicali e interventi da Musicoterapeuta.

    È così che Castel di Sangro vanta la presenza di un Artista che, attraverso la sua profonda e intelligente ironia tratta temi e tematiche antiche turbolenti e dal
    fascino nero e ancestrale come quello della morte; di un Insegnante di Educazione Musicale presso gli Istituti pubblici che, con molta probabilità, verrà apostrofato come alternativo; e ancora quella di un Musicoterapeuta che insegna fuori e dentro la sua stessa Scuola di Musica da ben oltre15 anni, è Mauro Petrarca, noto anche al grande pubblico.

    Per tutti coloro che desiderano conoscere Mauro Petrarca lascio qui li link del suo personale sito web: www.mauropetrarca.it

    RINGRAZIO MAURO PETRARCA PER LA SUA GENTILE DISPONIBILITA’.

    Claudia Dell’Era

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  • Perdere la calma per le piccole cose di Ernstfried Hanish (De Agostini Libri, 2025)

    Perdere la calma per le piccole cose di Ernstfried Hanish (De Agostini Libri, 2025)

    Ciascuno di noi nasconde in sé degli “elefanti” che si risvegliano al ronzio di una fastidiosa zanzara. E’ l’immagine decisamente inconsueta, ma straordinariamente efficace con cui l’autore di questo libro intende presentare la realtà affrontata in queste pagine, vissuta da ciascuno di noi, ed alla quale tenta di offrire una soluzione.
    Ernstfried Hanish, psicologo tedesco di fama internazionale, propone al lettore un metodo incredibilmente semplice per comprendere il percorso di analisi – e, nel caso del lettore, di autoanalisi – che egli compie sui propri pazienti per permettere agli stessi di liberarsi o quanto meno di convivere con i propri Elefanti, ovverosia con tutti quei traumi o comunque quelle ferite, quelle insoddisfazioni mai risolte e con cui non siamo mai venuti ai patti, che ci portiamo dietro dall’infanzia. Un’incomprensione con i nostri genitori, una gelosia tra fratelli, il trauma di essere cresciuti da soli, l’ansia affrontata nel passato di non portecela fare, di dover lottare per la nostra sopravvivenza o per i nostri bisogni senza l’appoggio di nessuno.
    Benché il tempo e la vita sembrino cancellare addirittura certi ricordi, questi Elefanti, in verità, non vanno mai via e si annidano nel nostro inconscio pronti a saltare fuori al primo ronzio fastidioso di Zanzara, ovvero al primo imprevisto, alla prima contrarietà che in qualche modo è in grado di riportarli in superficie.
    Ecco dunque come possono essere spiegate alcune nostre reazioni all’apparenza incongrue, addirittura esagerate, alle quali perfino noi stessi non siamo in grado di offrire una giustificazione. Partendo dall’esame di alcuni casi personalmente trattati dall’autore, Ernsfried Hanish ci spiega l’importanza che gli Elefanti hanno nella vita di ognuno tutti i giorni, proprio perché tutti i giorni è possibile incontrare una Zanzara – può essere la vicina di casa con cui abbiamo una discussione sciocca, il coniuge che fa un’osservazione all’apparenza innocua, gli amici che non ci vengono sul momento incontro – che potrebbe scatenare in noi un vero e proprio malessere, che soltanto apparentemente può essere ricondotto alla stessa, ma che in realtà è dovuto alla presenza mai risolta di quell’Elefante che resta annidato nel nostro profondo.
    L’unica soluzione è riconoscere ed accettare l’Elefante, ricordare e rielaborare la ferita, anche grazie alla maturità dell’età adulta, per fare in modo che al prossimo incontro con la Zanzara il malessere non sia più così profondo.
    E perciò nella seconda parte del libro, abbandonando la descrizione dei casi, l’autore offre al lettore una serie di schemi e di test che ciascuno di noi può consultare ed eseguire, corredati dalla dovuta spiegazione, al fine di rintracciare il proprio Elefante, riconoscerlo ed evitare che una fastidiosa Zanzara possa rovinarci le giornate.
    Ciò fa sì che la lettura si riveli ancora più interessante di quella che sarebbe se avessimo tra le mani un semplice manuale o un saggio, sterile nella sua arida e distaccata disquisizione. Ci rendiamo conto, infatti, che i veri protagonisti del libro siamo proprio noi e che è su di noi che l’autore sta portando avanti la sua terapia, in maniera a dir poco indolore e piacevole.

    Vittoria Caiazza

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  • Erica Tabacco, la fantascientista

    Erica Tabacco, la fantascientista

    Erica Tabacco, scrittrice vicentina, si è fatta notare per la partecipazione ad alcune antologie come Slava Ukraïni! 9 penne contro l’orco di Tabula Fati (unica donna a partecipare all’antologia e il suo racconto… geniale), oltre che per alcuni traguardi. Vediamo cosa dice.

    Erica, parlami di te come autrice.

    Nel 2009 ho scritto una storia autobiografica, una specie di favola amara, che pensavo sarebbe rimasta un’esperienza a sé. Poi mi sono appassionata alla fantascienza e, lettura dopo lettura, mi è venuta l’ispirazione per un racconto su una cura sperimentale contro la sindrome di Alzheimer, intitolato “Fuga psicogena”. È stato pubblicato da Delos Digital, e da lì non mi sono più fermata. Con
    Delos ho pubblicato altre due novellette ecologiche, una su un trattamento forestale fitoterapico (“Il pittore di ragnatele”), e una su un trapianto di valvola cardiaca vegetale (“Degerminazione”). Come vedi, le storie che amo scrivere parlano di ricerca, di etica, di ambiente. Ho pubblicato anche due romanzi, “La Repubblica delle Lettere”, un’ucronia, e “Burnout baby – L’angelo del Bellini”, ambientato in una galleria d’arte della mia città, Vicenza. Nel 2023 ho preso coraggio e ho partecipato al Premio Urania, che come sai è il premio più prestigioso per la fantascienza italiana: sono arrivata in finale con “Il sonno del futuro”, una storia che parla di cellulosa commestibile, sonno indotto e fisica quantistica. Anche se ho una preparazione umanistica, mi piace approfondire argomenti STEM. Non è vero che le scrittrici non siano interessate alla hard science fiction! Il romanzo verrà pubblicato quest’anno. Nel frattempo, “Il grande salto” è apparso nell’antologia estiva Urania 2024, intitolata “Macchine IA e robot”; parla di otto robot, ciascuno con un tipo di intelligenza diversa, che vengono assemblati per dare origine a qualcosa di completamente nuovo. Funzionerà?

    Qual è il tuo genere preferito e quello che non scriveresti mai?

    Come hai visto, per me i generi letterari sono un grande buffet dal quale scegliere gli elementi più idonei a scrivere una storia. Mi piacciono la fantascienza, il thriller, il giallo, invece ho meno dimestichezza con il fantasy, l’horror e il romance. Ritengo però che uno scrittore debba affrontare letture di varia natura per costruire la propria voce. Uscire dalla zona di comfort non può che arricchire. Io, anche se non l’avrei mai detto, sono finita a terraformare Marte (Piccola stella mortale). Se proprio insisti, penso che non scriverò mai un romanzo rosa.

    Progetti per il futuro?

    Sarò nella giuria del premio La città sul Ponte, esperienza del tutto nuova e che mi mette un po’ in soggezione. Ho scritto un racconto sul cambiamento climatico che spero venga inserito in un’antologia. Inoltre sto per inviare a un importante concorso di narrativa un romanzo che parla di riscaldamento globale. Mi piacerebbe partecipare di nuovo al Premio Urania ma solo se troverò l’idea giusta. Sono lenta ma costante e non mi lascio abbattere. Prima o poi… Sognare è lecito, no?

    Grazie per l’attenzione e prendiamoci questo caffè!

    Kenji Albani

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  • Il declino della sanità pubblica in Calabria

    Il declino della sanità pubblica in Calabria

    Profonda sembra essere la crisi della sanità pubblica calabrese, che appare ancor più in declino dopo gli anni difficili del Covid. È evidente come il cittadino, facendo esperienza delle strutture sanitarie, quasi sempre ne esca scontento, dopo aver toccato con mano quanto può essere difficile ricevere un servizio assistenziale adeguato.  Le condizioni in cui versa la Calabria su questo fronte non fanno ben sperare.  Volendo ampliare gli orizzonti e parlando del Meridione in generale, poi, vediamo come  le recenti statistiche ci mostrano che è proprio in quest’area che  la percentuale di persone che rinunciano a curarsi perché non possono permetterselo è più alta. Anni e anni di cattiva gestione politica (che della virtù dovrebbe rivestirsi come disse Aristotele) sembrano aver aumentato il malessere ovunque,  ma il fondo lo si tocca proprio laddove invece efficienza e alta qualità delle prestazioni dovrebbero essere la priorità assoluta, e cioè la tutela e i diritti della salute dei cittadini.  Anziani con paghe al minimo della dignità e spesso soli, o famiglie svantaggiate, sembrano vivere uno stato di abbandono, costretti come sono ai tempi biblici della Calabria dalle file interminabili. Precariato per i giovani e affossamento della meritocrazia, anche nel settore sanitario: questi i frutti più riusciti di tanta politica in Calabria come al sud.

    La realtà della nostra regione – non lo scopriamo qui noi – mostra una drammatica spaccatura: da una parte una sanità privata attiva,  con tutti i servizi ben funzionanti a disposizione del cittadino (ben) pagante,  dell’altra una sanità completamente fatiscente per chi può solo affidarsi al servizio sanitario pubblico. Che è una valle di lacrime, da tutti i punti di vista: si va dalla carenza degli ospedali stessi alla mancanza di fondi per l’assistenza delle persone non autosufficienti.  A tutto questo – facile dirlo ma forse anche inutile – ci sarebbe un rimedio: una gestione trasparente e che punti alla qualità, a  investire e a non fare tagli, e quindi a non produrre contratti che non saranno rinnovati e che genereranno solo  carenza di personale medico e paramedico, e a non sperperare risorse per corsi di formazione regionali che non daranno sbocchi lavorativi. Occorre precisare che  Il problema della Calabria non è la mancanza di programmazione, ma la sua attuazione (disastrosa) da parte della politica.

    Che da sempre è stata pessima cocchiera di un carro pieno di  tesori: ambientali, culturali, gastronomici. Probabilmente abbiamo i dirigenti che ci meritiamo, ma almeno ribelliamoci un po’ – ogni tanto – per sopravvivere. Vorremmo morire in Calabria, non morire di Calabria.

    Maria Simona Gabriele

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  • Fabio alias Lo chiamavano calcio: “Inter, la mia storia di calcio romantica”

    Fabio alias Lo chiamavano calcio: “Inter, la mia storia di calcio romantica”

    Ho sempre amato la serie A, la sua epica e la sua narrativa,  da appassionato neutrale. Calcisticamente sono un ateo: non ho una fede che mi leghi, emotivamente e spiritualmente, a una squadra di massa (cioè una di quelle che raccolgono migliaia di tifosi in tutta l’Italia, quindi parliamo di Juventus, Inter e Milan e, in misura minore, di Napoli, Roma, Lazio, Fiorentina e Torino) né tantomeno a una delle provinciali più o meno di lusso che hanno contribuito a fare la storia della massima serie con saghe più o meno lunghe. In fondo, tengo solo alle sorti della squadra della mia città, per ragioni di puro campanile: il giorno – oggettivamente ancora lontano – in cui il mio Cosenza ci arriverà potrei cominciare a guardare la serie A anche da tifoso. C’è da dire comunque che la passione di parte non produce sempre, necessariamente, steccati ideologici tali da annullare ogni curiosità di conoscere ciò che c’è fuori. Anzi, di questa curiosità la passione di parte sembra essere componente costitutiva: lo dimostrano tanti YouTubers, sfegatati tifosi e nello stesso tempo pregevoli cultori della materia calcistica in senso globale e, tra essi, Fabio di “Lo chiamavano calcio –  Storie di calcio romantiche”, che si propone come raffinato ricercatore della storia del calcio italiano.  Il suo canale è una piccola enciclopedia storica del grande calcio nazionale, per monografie: al momento in cui scriviamo, 139 video, quasi 26.000 iscritti e più di 4 milioni di visualizzazioni. Fabio è un interista (dichiarato), ma non per questo prigioniero di una visione del calcio interocentrica. A beneficio di tanti followers che vorrebbero, magari, saperne di più a proposito di questo versante (e non osano chiedere), entriamo meglio nella sua Inter… iorità!    

    Fabio, quando e come l’Inter ti ha fatto innamorare di sé?

    Ho avuto la fortuna di iniziare a seguire il calcio nella stagione 88-89. Proprio quell’anno l’Inter di Trapattoni vinse lo scudetto dei record e Aldo Serena realizzò più di 20 reti. Fu quella la scintilla che fece esplodere l’amore verso i nerazzurri, anche perché trovavo assolutamente bellissima la maglia sponsorizzata misura (l’unica maglia che ritengo essere più bella è quella della stagione 96/97…indecenti le ultime griffate NIKE!).

    La tua famiglia è tutta interista?

    Fortunatamente sì. Mio padre è interista, così come mia madre e mia sorella (che come primo amore ha avuto Walter Zenga).

    Anche mia moglie Valeria è interista (da ragazza aveva l’abbonamento al terzo anello nella sciagurata stagione 2001-2002) e naturalmente anche mia figlia è nerazzurra: in occasione del match di Coppia Italia contro l’Udinese ha assistito alla sua prima partita dal vivo e non vede l’ora di tornarci.

    Il miglior allenatore interista a tuo parere?

    Sarò banale ma dico Mourinho, capace di scatenare un senso di appartenenza davvero incredibile. Un posto speciale nel mio cuore ce l’ha anche Mister Gigi Simoni

    E il miglior giocatore?

    Onestamente, dato il gran numero di campioni che ha vestito la maglia dell’Inter, non saprei dire quale sia stato il migliore giocatore della storia interista. Posso però dire con certezza quale è stato il mio giocatore preferito: IVAN ZAMORANO. Poca tecnica ma un cuore immenso ed un amore sconfinato per l’Inter e verso i suoi tifosi.

    L’Inter a cui sei più legato nella tua storia personale o nella tua personale mitologia?

    Sono in dubbio tra l’Inter 2009/2010 e l’Inter 97/98. Comunque dico Inter 97/98 per la presenza di giocatori come Bergomi, Pagliuca, Zamorano, Simeone, Djorkaeff…giocatori che hanno davvero amato l’Inter. Non ho dimenticato Ronaldo, l’ho tralasciato apposta: giocatore straordinario ma che non ho mai perdonato per il modo in cui ha abbandonato la Beneamata.

    Se dovessi fare un video del tuo canale dedicato al momento di maggior gloria del club nerazzurro, quale sceglieresti? 

    Sarò scontatissimo ma parlerei della conquista del triplete; considerando però gli argomenti che preferisco trattare nei miei video…è probabile che prima ne farò uno sul 5 Maggio!

    Ei fu dal tonfo ignobile

    Dato il luttual sospiro

    Fatto sì triste, lepore

    D’or, da flere’l martiro.

    Le lacrime di Ronaldo. Le lacrime di un dio. Storie mitiche di un calcio da raccontare con la cetra. Storie romantiche.

    Gianluca Vivacqua

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  • Peppe Voltarelli – La grande corsa verso Lupionòpolis (Visage Music)

    Peppe Voltarelli – La grande corsa verso Lupionòpolis (Visage Music)

    Peppe Voltarelli, giramondo, uomo di mare e di migrazione, fa del suo canto-dialetto un concetto tribale ma globale, avvincente e intrigante a un tempo, capace di mescolare speranza, folk e poesia. Lupionòpolis è la sua nuova direzione, oltreoceano, nel sud del mondo; brasiliana, meta e ideale di una lingua e di una musica unificanti. E nella sua forma canzone viscerale, capace di ammaliare e coinvolgere, trova lo strumento per mantenere la rotta. Otto anni dopo, discostandosi dai suoi lavori precedenti (Voltarelli canta Profazio e Planetario), con nel mezzo tre targhe Tenco e un Premio Loano, tra i più importanti premi dedicati alla musica d’autore e tradizionale, il poliedrico artista calabrese (scrittore, cantautore, attore) parte verso un percorso internazionale, accompagnato da incredibili firme, sia per l’arrangiamento (Simone Giuliani) sia per il suono (Mark Urselli), e intinge la sua penna nell’intreccio di vite, e di storie, della Grande Mela. New York: incrocio di migranti, mare e sogni. Evocativo battito di world music è quel Mareniro,  crocevia che mescola, in un gioco di scrittura-prosa quasi onomatopeico, gli orizzonti e la speranza, l’approdo e l’abbandono. Esplosione di quelle radici così ferventi e dialettali, che si snodano  attraverso ritmi ironici, teatrali e furbeschi, è Nun signu sulu mai. Voltarelli è attoriale, voce di dentro, di un popolo, come di un teatro. La frivolezza, la leggiadria dei ritmi jazz di Spremuta di limon ci riportano agli anni ‘50, al bianco e nero, a qualcosa di antico e cinematografico, con Buscaglione sulle dita e un bicchiere sul piano. Sfacciataggine folk, ma anche popolare, nella “burlona” Mozza, scrittura che narra, si fa scena, come in un proscenio comico nei locali fumosi americani. È devozione, e ammirazione, elegantemente e giocosamente perfetta, Bon Bon, a mezz’aria come un brano di Conte o dell’indimenticabile Leo Chiosso. Quella corsa, quell’affanno, tra fiato e futuro, lavoro e miraggi, è la piccola Lupionòpolis, piccola Macondo o Valparaíso, immaginaria e poetica, personale e intima, del viaggiator andante Voltarelli. Malinconica, manouche, gitana, tra mille fisarmoniche che, come ponti che si allungano tra terra di Calabria e i sud del mondo, ci riportano a una visione della scrittura meravigliosamente arcaica, quasi contadina, dove la lingua calabrese, è porosa nella sua musicale artigianalità  ma anche borderline, e viaggia nei suoi ritmi sanguigni, alla conquista di nuovi continenti, tra poesia e teatralità. Un simposio, tra versi e tradizione, radici e folk, che pone il già celebre Voltarelli quale nesso di assoluto  spessore tra due mondi artistici correlati: il jazz  popolare e la  narrazione pura e impavida.

    Sergio Cimmino

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  • Bill Gates, l’uomo delle porte aperte o da aprire

    Bill Gates, l’uomo delle porte aperte o da aprire

    Un uomo, un Genio: Bill Gates, uno dei più grandi pionieri della storia dell’informatica, uno dei più grandi filantropi della storia moderna. Nato a Seattle nell’ottobre del ’55 vive un’infanzia in cui è centrale la presenza della famiglia: i suoi genitori, sua sorella Kristi, sua nonna Gami. In famiglia impara quanto possano essere spietate le regole della vita anche grazie a giochi come il bridge. L’acquisizione della disciplina è invece il senso della severa educazione impartitagli dal padre, avvocato di un importante studio di Seattle, e dalla madre, volontaria di diversi circoli.  S’interessa presto alla matematica, rispetto agli altri bambini appare subito molto più maturo. Non sembra manifestare gli stessi interessi dei coetanei e si getta a capofitto nello studio dei calcoli algebrici. Una volta a scuola, per via del suo carattere timido, della bassa statura e della gracilità  non lega molto con i compagni; maschera la sua insicurezza in pubblico ostentando presunzione. La verità è che dentro di sé ha una chiara coscienza di quanto vale, ma preferisce farne il suo mondo inaccessibile: qualcosa in cui specchiarsi in segreto nella sua cameretta, rifugio dell’anima tra cifre e formule. Tuttavia non c’è solo la matematica nella sua vita: ci sono anche i boyscout, facendo parte dei quali viaggia nello stato di Washington. Qui trova Kent, un adolescente molto esperto dei percorsi boschivi. Una promettente amicizia stroncata però assai presto da una tragedia: Kent una sera durante un’escursione cade rovinosamente dalla sporgenza di una montagna. Portato all’ospedale in elicottero, muore la notte dopo l’incidente. Bill non sapeva ancora cosa volesse dire la morte: lo capisce perdendo quello che già considerava il suo migliore amico.

    Poi arrivano le scuole medie, dove Bill arriva addirittura a farsi bullo per nascondere le sue fragilità: risponde male ai professori, mostra un atteggiamento irriverente, ribelle, e intanto continua ad alimentare il sacro fuoco della matematica e delle scienze. E la passione per le escursioni. Terminate le scuole medie la sua famiglia cambia città e Bill frequenta la Lakeside School. Alle superiori  inizia a occuparsi di informatica. Con gli amici passa tantissime ore nel laboratorio pieno di computer della scuola e prova a scrivere un linguaggio elettronico chiamato Basic. I primi tentativi si rivelano solo prove a vuoto, ma la costanza premia lui e i colleghi e alla fine esce fuori un software pronto per essere proposto a un’azienda. Erano gli anni d’oro dell’informatica, quelli: se ne parlava ormai come della nuova frontiera dell’elettronica, e in essa tante ditte avevano cominciato a investire le proprie finanze. E moltissime altre cominciavano a nascere. Bill e i suoi amici continuano indefessi a programmare in Basic e a scrivere codici per soddisfare o anticipare commissioni.

    La fortuna presto bussò: Paul, un amico di Gates, trova un’azienda, la Mits, in cerca di un software per un progetto da lanciare tramite un apparecchio chiamato Altair. Gates, che intanto è andato ad Harvard, e i suoi amici si mettono all’opera e producono quanto chiesto dalla Mits: riescono così a ottenere un contratto con un sostanzioso ingaggio. Lunga e duratura storia d’amore? Tutt’altro: le premesse e le promesse del contratto ben presto vengono disattese. Delusi, Bill, che in questo periodo ha modo di conoscere Steve Jobs della Apple, e i suoi amici decidono di fare il grande passo: mettersi in proprio e, superati i dubbi di Paul, fondare un’azienda tutta loro, la Microsoft. Si inizia con le royalties ricevute dalla Mits: Bill detiene il 60% delle quote societarie. Ma intanto non segue più le lezioni all’università e fa preoccupare i familiari: tuttavia non lascerà le cose a metà, riprenderà i suoi studi di buona lena e centrerà la laurea. Non solo una vita di ascese e di affermazioni, quella di Gates: non mancano le pagine strazianti. Un giorno, tornato a casa dai suoi, trova il padre di Kent, il vecchio amico che era morto provando a scalare il costone di una montagna. Abbracci e lacrime, un ricordo commosso, sofferto, che dura ore, ma potrebbe durare giorni. Nel 1987 muore la nonna di Bill Gates, che nel 1994 perde anche la madre, colpita da un cancro al seno. Il padre, poi, venne a mancare nel 2020, a 94 anni, e con lui Bill perde un importante punto di appoggio. Nei momenti cruciali come quello in cui risolse il contratto con la Mits o scelse di iscriversi ad Harvard lui c’era, per dargli una pacca sulle spalle. E ovviamente aveva fatto anche in tempo a vedere il suo piccolo bambino prodigio, molto più maturo dei coetanei, appassionato di matematica e discipline scientifiche, diventare uno dei più grandi magnati della Terra. Con soddisfazione, spirando, poteva dire che ne aveva fatto di strada, l’adolescente che si mostrava aggressivo per camuffare le proprie insicurezze: con i suoi strumenti era riuscito a entrare nelle case di milioni di persone e a cambiarne la vita. In meglio. Da un Genio, nulla di meno ci si poteva aspettare.

    Andrea Rizzatello

    Leggi anche al link https://madmagz.app/viewer/679b43c2f6ae680014ee2865

  • Patrizio Oliva: “Rino Tommasi e le emozioni della boxe”

    Patrizio Oliva: “Rino Tommasi e le emozioni della boxe”

    Salvatore Tommasi, ai più noto come Rino, giornalista, nato a Verona nel ‘34 e morto l’8 gennaio di  quest’ anno, è stato la voce ufficiale della boxe e del tennis degli anni ’80; “tassonomico e non nozionistico”, come avrebbe detto un personaggio di Quelli che… il calcio, era approdato in tv dopo tanto giornalismo scritto e tanta attività pugilistica organizzata in prima persona. E dopo aver appeso al chiodo una racchetta. Nella sua carriera di giornalista anche tanti Superbowl e ben 157 viaggi negli Usa; insomma, praticamente un americano trapiantato nell’informazione sportiva italiana.

    Per il “Cappuccino” chiediamo a Patrizio Oliva, grandissimo campione di pugilato, un ricordo di Tommasi, che stava alla boxe come De Zan al ciclismo o Martellini al calcio.


    Rino Tommasi ha lasciato un segno profondo nel mondo della boxe, di cui era un autentico appassionato. Riusciva, con il suo entusiasmo e la sua capacità di analizzare ogni match con grande profondità, a coinvolgere i telespettatori. Lo ricordo anche come grandissimo organizzatore  di incontri sul ring: è stato il primo a far conoscere al grande pubblico Mike Tyson.

    La sua voce trasmetteva la tensione di ogni round. Famosissimo il suo commento del sesto ripresa dell’incontro Hagler-Mugabi: Tommasi non si limitava a descrivere i colpi e i movimenti dei pugili, ma riusciva a immergere gli spettatori nell’atmosfera del ring, facendo emergere la storia dietro ogni combattimento, l’importanza di ogni gesto, e soprattutto l’aspetto umano degli atleti.

    La sua narrazione, caratterizzata da uno stile sempre educato e professionale ma al contempo appassionato, era capace di rendere gli amanti della boxe parte integrante di ogni incontro, qualunque fosse il palcoscenico, match mondiale o gara tra esordienti.. Rino Tommasi ha saputo rendere ogni incontro di boxe un momento di pura emozione, esaltando la bellezza e la durezza di questo sport.

    Il suo ricordo nella boxe, così come nel tennis, rimane indelebile, e chi lo ha ascoltato commentare sa che, grazie alla sua voce e alla sua capacità di raccontare, ogni match diventava qualcosa di speciale.”

    Un ringraziamento particolare

    Stefano Marino

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  • Carlo Nesti: “Io e la Nazionale”

    Carlo Nesti: “Io e la Nazionale”

    Cronologia dei telecronisti Rai della Nazionale di calcio. In principio fu la radio, e da essa venne Nicolò Carosio, a cui seguì Nando Martellini. Con questi ebbe fine l’Antico Regno dei marconiani e con Bruno Pizzul, ex calciatore, iniziò l’era dei cronisti già formati per lo schermo. Da Pizzul a Rimedio, passando per Cerqueti-Bizzotto, Civoli e ancora Bizzotto praticamente la televisione di Stato, per le partite dell’Italia, non attinse mai più alla radio, se non nel periodo 2010-2012, quando cantore delle gesta azzurre divenne Bruno Gentili: e quello fu il Nuovo Regno dei marconiani. Ma c’era in realtà un altro giornalista con una solida scuola radiofonica alle spalle che, sin dal ritiro di Pizzul, aspettava la sospirata “convocazione” in Nazionale. Non che non fosse  già nel giro televisivo azzurro, anzi: Carlo Nesti, torinese cresciuto a Tuttosport, trottando tra un Processo del lunedì, una Domenica sportiva, un Novantesimo minuto  e un Tutto il calcio minuto per minuto dal ’91 era diventato il telecronista ufficiale dell’Under 21 di Maldini, magnifica nelle sorti progressive dei suoi campioni, come quella di Vicini, ma anche più vincente. E quanto più vincente! Nesti smise di accompagnare con la voce gli azzurrini proprio in quel 2002 in cui si apriva la successione a Pizzul, dopo essersi goduto le vittorie in serie agli Europei di categoria nel 1992, 1994 e 1996. Se occorreva un telecronista per la Nazionale A dotato di apposito stellone – a Pizzul, simpaticissimo e coltissimo, gliene fosse andata una buona! – Nesti poteva essere davvero l’uomo giusto. Anche per un altro motivo, non da poco: aveva dalla sua un tratto stilistico inconfondibile. Se Carosio è passato alla storia per la capacità di adattare in italiano l’inglese del football, Martellini per la maestria nel trasmettere pathos maxima cum misura e Pizzul – oltre che per le digressioni culturali – per il tormentone “Tutto molto bello”, Nesti poteva calare l’asso del saluto urbi et orbi, “Appassionati di calcio buonasera”. Il Filogamo del rettangolo verde, però (non dimentichiamoci che Carlo sa il fatto suo anche in materia di testi musicali), al pari di tanti “suoi” campioni come Morfeo, Buso, Carbone, Marcolin, Amoruso, Pecchia, Muzzi non farà mai il salto dall’Under 21 all’Italia maggiore. Perché? 

    E allora Carlo, cosa successe dopo quel convulsissimo dopo-Pizzul?

    Della mia successione a Pizzul parlavano i giornali nell’estate del 2002, all’indomani dei Mondiali in Corea-Giappone (non memorabili per gli azzurri, e ricordati solo per l’arbitraggio-scandalo di Byron Moreno). Nella classifica dei telecronisti – mai resa nota da nessuna parte, si trattava di un’informazione riservata che circolava all’interno di Raisport – ci trovavamo in testa, alla pari, Cerqueti e io.  L’arrivo di un nuovo direttore, proprio in quel periodo, rivoluzionò la graduatoria: all’orizzonte si profilava il varo di una staffetta Cerqueti-Bizzotto, e intanto io venivo retrocesso da numero 1 a numero 5. Appresi tutto questo dalla stampa, e nessuno mi spiegò mai il motivo di questo “sconvolgimento”.

    Il pensionamento di Pizzul rappresentò anche un cambio di stile da parte della Rai nella translatio imperii in cabina di commento: non più gestioni lunghe – quasi fino alla pensione, potremmo dire – ma interregni di durata piuttosto variabile.

    Esattamente. Dalle origini fino al ’70 avemmo Carosio, dal ’70 all’86 Martellini (da Messico a Messico), dall’86 al 2002 Pizzul. Anche se, dei tre, il solo Pizzul concluse il proprio servizio serenamente (Carosio, com’è noto, dovette abbandonare i microfoni per un incidente “diplomatico” mentre Martellini fu messo fuorigioco da un problema di salute), quel che è certo è che, per più di quarant’anni, nessuno mise in dubbio lo schema del telecronista permanente. Tutto cambiò dopo l’addio di Pizzul: a partire dal 2002 gli avvicendamenti si susseguirono con ritmo frenetico, con cadenza quasi biennale. Stoicamente, appassionato dei tele-racconti calcistici qual ero, rimasi in Rai fino al 2010, nel tentativo di rimontare posizioni, per così dire, e cercare di riprendermi quello che, con tutta evidenza, mi ero guadagnato. Non ci riuscii, dunque presi cappello e salutai.

    Qual è il tuo modello di telecronista, Carlo?

    Si tratta di un giornalista il cui nome, ahimè, probabilmente dirà poco o nulla alle nuove generazioni: sto parlando di Giuseppe Albertini, che per la televisione svizzero-italiana commentava non solo le partite di calcio, ma anche l’hockey su ghiaccio e lo sci. Imparai ad apprezzarne la misura, l’accuratezza nel linguaggio, il ritmo, la padronanza vocale nell’edizione del 1970 del Mondiale di calcio: la Rai, infatti, gli affidò la copertura di uno dei quattro gironi del primo turno. Ebbi, poi, modo di conoscerlo personalmente alle porte di una grande tragedia, il giorno prima della strage dell’Heysel (la sanguinosa cornice della finale di Coppa Campioni 1985 tra Liverpool e Juventus, ndr): era già molto anziano, si trovava lì per fare una delle ultime telecronache della sua carriera. Gli strinsi la mano e gli dissi che per me era stato sempre il n. 1.

    Martellini diceva che, a proposito dei telecronisti, si possono individuare due scuole: quella sudamericana, fondata sull’estrema enfasi e sul gusto dei toni clamorosi, e quella anglosassone, asciutta e misurata. Martellini prediligeva quest’ultima perché era la stessa seguita, più o meno, dal suo maestro Carosio, mentre diffidava dal voler emulare la scuola sudamericana, che avrebbe reso il telecronista un forzato dell’entusiasmo, e quindi poco naturale e anche poco credibile. Sei sempre stato anche tu dello stesso parere?

    Personalmente credo che nelle partite tra una squadra italiana e una squadra straniera una ragionevole dose di partigianeria si possa anche accettare; cosa che, invece, non ritengo possibile nei match tra due squadre italiane. Non credo, poi, che urlare in continuazione trasmetta più entusiasmo. Proprio Martellini ci ha insegnato che si possono comunicare emozioni rimanendo calmi “sul pezzo”. Bisognerebbe essere “sudamericani” quando è veramente necessario, nel corso di una partita. Ma direi anche che sarebbe meglio esserlo nelle partite in cui vale veramente la pena esserlo: se dai il massimo dei decibel in Monza-Empoli, cosa dovrai o potrai inventarti qualora ti tocchi commentare una finale mondiale? Posso capire che per le tv commerciali le partite, al pari degli altri programmi, siano prodotti “da vendere”, ma lo si può fare anche senza alzare il volume al massimo per 90’ su 90.

    Cosa pensi veramente della doppia voce (giornalista + opinionista) nelle telecronache? Martellini era contrario anche a questo. 

    A questo proposito ho un’idea che esterno già da molto tempo. Come Martellini e come anche Pizzul ritengo che la partita debba essere narrata da una sola voce. Questo perché la partita ha una sua “sacralità”, come la televisione: tu non puoi parlare continuamente in tv come fossi alla radio. Invece è necessario lasciare allo spettatore quegli attimi di silenzio necessari, ad esempio, a godersi gli effetti dello stadio o a concedere un po’ di riposo all’orecchio. A parte questo, una coppia dovrebbe essere estremamente collaudata e affiatata: altrimenti si rischia quella situazione antipaticissima in cui magari uno si attarda nell’analisi dell’azione-gol che si è appena conclusa e l’altro gli si sovrappone per non bucare un’altra eventuale occasione sotto rete maturata nel frattempo.

    Credo che la soluzione ottimale sia un solo cronista in cabina e due bordocampisti nei pressi delle due panchine: aumenta l’interesse degli spettatori creare l’attesa per una sostituzione che appare imminente o documentare la tensione in campo semplicemente dando voce ai richiami e alle indicazioni delle panchine. Opinionisti ed ex calciatori e allenatori dovrebbero lavorare prima e dopo la partita e nell’intervallo tra un tempo e l’altro. Alla Rai rimprovero di aver seguito troppo pedestremente i modelli della tv commerciale: ricordo però che fu pioniera nella sperimentazione della telecronaca affidata a una coppia di giornalisti, e in questa sperimentazione fui coinvolto io stesso. Grazie a questa formula posso vantarmi di aver co-raccontato con Pizzul la finale dei Mondiali del ’94: essa ebbe però vita breve, stroncata da certi organi di stampa che al tempo erano impegnati a far guerra al modello Rai dell’informazione sportiva.      

    Quali i tuoi ricordi più belli da telecronista della Nazionale (soprattutto Under 21)?

    In Rai il mio chiodo fisso sono sempre state le radio-telecronache. Se devo essere sincero, per i miei gusti personali la radio mi ha sempre affascinato più della televisione. A un certo punto, però, dovendo scegliere, scelsi la seconda: a quel tempo la Rai trasmetteva tutte le coppe e le partite della nazionale e aveva l’esclusiva sulle immagini del campionato. Che mondo di larghe possibilità e di grandissime prospettive! Se sfoglio il mio album di ricordi da telecronista uno dei capitoli che mi sta più a cuore è senza dubbio la Nazionale Under 21: 1992, 1994, 1996, per ben tre volte ho toccato il cielo con un dito! Mi ritengo molto fortunato. L’Under 21 è stata una specie di seconda famiglia per me. Il rapporto che si era creato tra la squadra e noi giornalisti è, nel calcio blindatissimo di oggi,  per molti aspetti impensabile. C’era un gruppetto di sette-otto giornalisti che seguiva la squadra in ogni trasferta e ne condivideva umori e speranze, in un clima di estrema, cordiale complicità. Staff tecnico e giocatori erano molto accoglienti nei confronti di noi che dovevamo raccontarne le gesta, apertissimi: l’Under 21, una squadra  popolare, ben voluta dai giornalisti e… vincente. Si può esserlo anche con la stampa a favore, sì; dovrebbero impararlo molti dirigenti e allenatori di oggi, convinti al contrario che erigere un muro di incomunicabilità tra i loro giocatori e l’esterno garantisca migliori risultati.

    Molti dei temi che abbiamo trattato in questa conversazione con Carlo sono già stati ampiamente sviluppati da lui sul suo giornale online, Nesti Channel, raggiungibile a questo link:  https://www.facebook.com/NestiChannel. Attualmente Carlo è molto attivo anche su YouTube; il suo canale è  https://www.youtube.com/user/NestiChannel.

    Gianluca Vivacqua

  • Francesco Faraoni: “Il cielo stellato sopra di me e la legge stellare dentro di me”

    Francesco Faraoni: “Il cielo stellato sopra di me e la legge stellare dentro di me”

    Riproponiamo in forma aggiornata l’intervista all’astrologo Francesco Faraoni, pubblicata in prima versione sul nostro magazine nel giugno 2022.

    Al popolo del web Francesco Faraoni è noto soprattutto per il canale YouTube attualmente denominato ASTROLOGIA TRADIZIONALE che, creato il 21 aprile 2013, può contare a oggi oltre 23.000 iscritti e oltre 5.196.721 visualizzazioni.  L’astrologia è certamente una materia molto frequentata sulla principale piattaforma video della rete: si va dai tarocchi alle astro-star passando per i bollettini  in stile meteo, le sessioni di programmazione neuro-zodiacale  e le diagnosi da studio medico. In mezzo a cotanto panorama, lo scopo del canale di Francesco sarebbe quello di fare scienza pur non disdegnando il grande gioco delle previsioni periodiche: divulgare astrologia, cioè, nel momento stesso in cui la si pratica a beneficio degli ascoltatori.  

    Romano, laureato in Tecnico Biomedico alla Sapienza, Francesco scopre la sua vocazione per le stelle a partire dagli anni 2000, grazie allo studio dell’Astrologia Morpurghiana. Si è poi dedicato all’Astrologia moderna secondo la visione di André Barbault. Dal 2015, sospinto dalla passione per la filosofia naturale e la dottrina aristotelica, si occupa dello studio delle fonti antiche e della valorizzazione dei contenuti della dottrina, attraverso la ricerca delle fonti. È consulente in astrologia presso la piattaforma di Kang Italia. Cura il sito blog astrologiatradizionale.it, una raccolta di osservazioni, citazioni, e riflessioni legate alla letteratura astrologica antica, proponendo di tanto in tanto laboratori e gruppi di studio, anche con autorevoli collaborazioni.

    Recentemente ha pubblicato il testo “Astrologia elettiva medica e meteorologica, Trattato del 1567: Osservazioni de astrologia et altre appartenenze Battista de Ruberti”. Si tratta di un commento a un’opera minore di astrologia realizzata da Battista de Ruberti: un trattato del 1567 dedicato a Isabella Medici. In esso l’autore raccoglie informazioni generiche sulla iatromatematica e sulle mutazioni dell’aria e del tempo, secondo i criteri dell’astronomia e dell’astrologia. Siamo sotto papa Pio V, al tempo della Santa Inquisizione: l’astrologia medica e metereologica sembrano le uniche branche astrologiche tollerate. Ruberti espone nella sua opera i principi di base su cui nascono certi giudizi legati alla salute delle persone e ai cambiamenti del tempo. E la propone a Isabella Medici Orsini, famosa mecenatessa, cercando di ingraziarsi il suo favore ma soprattutto la sua protezione. Francesco ha tradotto il trattato di Ruberti in un italiano corrente, arricchendolo di commenti astrologici, grazie all’ausilio di più fonti di autori precedenti: il suo intento è principalmente quello di render giustizia a un’opera e un autore poco noti nel panorama dell’astrologia del XVI secolo. Ha condotto inoltre una serie di ricerche negli Archivi Storici di Firenze, più in particolare nel Carteggio di Cosimo I, per restituire consistenza storica alla figura di Battista de Ruberti oltre che la genesi dell’opera da lui analizzata. 


    Francesco, in tempi antichi l’astrologia si insegnava a scuola, essendo una delle sette arti liberali. Oggi invece come si diventa astrologi?

    Spiegare il fenomeno culturale che ruota attorno all’Astrologia non è affatto semplice. Prima di tutto, dovremmo chiederci se sia nata prima l’Astrologia o l’Astronomia. L’osservazione del cielo, dei fenomeni luminosi, lo studio dei moti planetari, del sorgere e tramontare del Sole, della Luna e degli altri astri visibili a occhio nudo costituiscono la prima evidenza storica tramandataci dalle fonti più antiche. L’Astronomia antica era molto diversa da quella moderna, poiché si concentrava esclusivamente sui fenomeni osservabili senza strumenti ottici. Si trattava, dunque, dello studio della meccanica celeste di una porzione specifica del cielo: l’astronomia di posizione, la stessa ancora oggi utilizzata nella navigazione e nota anche come astronomia nautica, è l’astronomia alla base del metodo astrologico.

    L’Astrologia, in quanto metodo, non può essere ridotta a una dottrina occulta o esoterica, ma rientra piuttosto tra le discipline umanistiche e naturalistiche. Attraverso i suoi paradigmi, essa cerca di decifrare la natura celeste in connessione con i moti terrestri, traendo da questa relazione analogie e informazioni. Personalmente ho scelto di seguire percorsi di Astrologia Tradizionale anglosassoni e americani; attualmente sto seguendo le esperienze del ricercatore Luis Ribeiro nella sua Academy of Traditional Astrology, trovando in questo autorevole studioso quell’idea di astrologia che ho sempre coltivato e amato, l’Astrologia del XV – XVII secolo, con approcci ed esperienze proposte d che aiutano a comprendere il metodo astrologico nei suoi principi tradizionali.

    Oggi lo studio dell’Astrologia ha una dimensione internazionale. Anche in Italia incontriamo numerosi professionisti e scuole che propongono una formazione astrologica adeguata. Merita una menzione la Scuola Apotelèsma, diretta da Lucia Bellizia, autrice di numerosi seminari e studi specialistici. Lucia rappresenta oggi un punto di riferimento in Italia per la traduzione e il commento dei testi astrologici antichi, oltre che per lo studio delle fonti. Nei suoi seminari è possibile reperire informazioni di grande valore. Cito anche  l’Accademia per l’Astrologia Tradizionale di Giancarlo Ufficiale e Fabrizio Corrias (e tanti altri docenti esperti) che fornisce un percorso importante di studio dell’Astrologia.

    Cito anche i miei percorsi che non appartengono tuttavia ad una Scuola ma sono piuttosto gruppi di esperienza: ciclicamente ho portato avanti, anche in collaborazione con altri studiosi e professionisti, diversi gruppi di studio dove ci siamo cimentati, in percorsi dialettici e di confronto, nello studio delle fonti e nello studio dei metodi proposti dagli autori stessi della tradizione: in particolare punto in questi percorsi nello studio di insieme della natività valorizzando i concetti di pianeti angolari, studio del Signore della Genitura, valorizzazione del temperamento prevalente, studio dell’animo, della mente e delle opere, proponendo confronti ed esperienze pratiche, partendo da principi tradizionali e trattando con questi gruppi i complessi capitoli delle dottrine essenziali e accidentali, vere cartine tornasole del metodo astrologico. Propongo nei miei percorsi una Astrologia che rievoca le fonti che vanno dal XIV al XVII secolo.

    Tuttavia, non è sufficiente “una scuola” per formarsi in Astrologia, ma è necessario adottare un approccio di studio articolato, che comprenda scuole, percorsi, seminari e ricerche autonome. A questo proposito, voglio essere chiaro: nei percorsi accademici e nei corsi strutturati si accede all’esperienza e alla conoscenza dei docenti, il più delle volte preziose e fondamentali. Nello studio dell’Astrologia è imprescindibile comunque anche un’auto-iniziazione che si basa su uno studio costante e rigoroso che può essere motivato solo dallo studente. Personalmente, mi reco spesso in diverse biblioteche di Roma proponendomi di tanto in tanto delle ricerche che stimolano la mia mente e arricchiscono la mia preparazione, consulto testi antichi e cerco di comprenderli in autonomia, acquisto ricerche filologiche per meglio comprendere il pensiero degli autori della letteratura astrologica antica.

    Quindi oggi esistono autorevoli percorsi di formazione ma è anche necessaria una certa predisposizione e disponibilità allo studio e alla ricerca perché il corso di astrologia o una scuola astrologica può darti l’indirizzo e la traccia, le basi fondamentali, ma poi è lo studente in prima persona a doversi arricchire attraverso esperienza e studio costante.

    Ma che cos’è un astrologo oggi? Un maestro spirituale, uno psicologo che studia l’anima attraverso gli influssi delle stelle, un motivatore che aiuta il suo pubblico ad allenare la personalità servendosi delle prescrizioni astrali?

    Definirei l’Astrologo come quella figura mediatrice, che ha lo scopo di interpretare il cielo e le cose terrene, proponendo attraverso le sue metodologie, lo studio della personalità e del progetto di vita di ognuno, secondo i principi naturali che sono propri dell’astrologia.

    Un astrologo può avere delle simpatie o delle antipatie nel novero dei segni zodiacali?

    Sarebbe del tutto irrazionale attribuire simpatie o antipatie ai segni zodiacali, poiché essi sono entità immateriali, prive di luce e di significato se separati dal sistema e dal metodo astrologico. Considerare i segni in modo isolato, senza il contesto astrologico, rientra piuttosto in un approccio pop, più vicino all’intrattenimento che a una reale comprensione della disciplina. Nell’Astrologia, il vero fulcro sono i pianeti (e il loro comportamento), poiché essi possiedono materia e luce. Questo spiega perché il modello astrologico tradizionale si basi principalmente sui corpi celesti osservabili a occhio nudo: Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno, ai quali si aggiungono le due luci più evidenti, denominate Clarissima Mundi: il Sole e la Luna.

    Che valore ha veramente la previsione astrologica per la vita di una persona?

    L’Astrologia ha un valore di indicazione e orientamento, non di fato. Il suo determinismo non implica la capacità di prevedere con esattezza ciò che accadrà, ma piuttosto di individuare un’inclinazione di base, una tendenza naturale. Nascere con determinate luci posizionate in un certo modo nel cielo locale, in un preciso momento stagionale, significa venire al mondo in un ecosistema celeste, ambientale e terrestre che inevitabilmente plasma, permea o accompagna il nostro sviluppo. Questo influsso si riflette nei nostri moti razionali, passionali e pulsionali, caratterizzando il nostro modo di sentire, percepire, pensare e comunicare. Queste inclinazioni contribuiscono alla formazione della personalità, e il nostro divenire è il risultato dell’interazione tra la Natura e le Qualità Naturali che si muovono dentro di noi.

    L’Astrologia comunque non si limita a indicare semplici predisposizioni, ma aiuta a comprendere le cause profonde del nostro essere e del nostro agire. Queste inclinazioni naturali influenzano anche la nostra capacità di realizzare certe cose piuttosto che altre, orientando il nostro percorso di vita. Ecco perché la previsione astrologica non deriva da veggenza, capacità medianiche o poteri soprannaturali, ma si basa su un metodo dotato di una logica naturale. 

    Quali sono gli astrologi del passato e del presente che consideri tuoi modelli?  Degli astrologi attuali di chi sei amico o chi segui con particolare attenzione e interesse?

    Sento particolarmente vicini a me astrologi come Giovanni Pontano, Cardano, William Lilly, Ranzovius e Guido Bonatti, insieme a molti altri che hanno operato tra la fine del Medioevo e il periodo rinascimentale, con un focus particolare sugli studiosi attivi tra il XV e il XVII secolo. Trovo questo periodo storico estremamente affascinante perché l’approccio astrologico non è più rigidamente tolemaico, pur ispirandosi da esso, ma si arricchisce di dottrine affini e complementari, come l’Umanesimo e il Naturalismo rinascimentali. In questo contesto, l’Astrologia si configura non solo come un sistema di calcolo basato su logica naturale, matematica e osservazione astronomica, ma anche come una disciplina che accoglie digressioni naturalistiche e speculazioni filosofiche, rendendo il metodo astrologico un vero e proprio strumento di indagine della realtà. In questo quadro, l’Astrologia diventa qualcosa di più di una semplice tecnica predittiva: è un metodo di comprensione dei fenomeni naturali e celesti, una chiave per interpretare le relazioni tra macrocosmo e microcosmo. Ed è proprio questa prospettiva, che coniuga rigore scientifico e visione cosmologica, a farmi percepire l’Astrologia rinascimentale come una sorta di “vera magia della creazione”, in cui la conoscenza umana si eleva a strumento di decifrazione del linguaggio dell’universo.