Annoverato tra gli artisti italiani più rappresentativi del secondo Novecento, Antonio Ligabue, pittore e scultore, deve alla sua stessa vita la sua fama.
È forse uno dei casi più significativi e peculiari in cui l’umano, il temperamento, il mondo interiore rivestito da quella pelle di fragilità, si ritrovano nell’opera.
La vita e l’opera d’arte del Ligabue sono la medesima storia umana.
La sua vita è subito segnata da eventi sofferenti già nell’infanzia con l’abbandono da parte della madre, giovane donna sola, che lo darà in adozione, non riuscendo ad occuparsi di lui. In seguito anche la seconda famiglia, svizzero-tedesca, che lo accoglierà con amore, sarà destinata alla stessa disgrazia finanziaria, cosicché la precarietà perdurerà oltraggiosa e presente nella sua vita.
Tutto per lui pare aver inizio ai margini di ogni latitudine sociale sconveniente e di una grande profonda viscerale sofferenza personale, rappresentata dall’ instabilità psichica, dalla fragilità e malattia che lo porteranno al rachitismo e alla presenza del gozzo così tanto pronunciato che gli deformerà i tratti del volto del cranio.
L’abbandono, il lutto della madre e dei fratelli, l’espulsione dalla Svizzera, la lontananza forzata dalla famiglia di adozione – causata da quella sua irrequietezza e spossamento emotivo sempre più espressi violentemente, porteranno il giovane Ligabue non solo a calpestare la trappola del disorientamento affettivo ma anche a vivere a Gualtieri, in Reggio Emilia, non sapendo una parola di italiano.
È ramingo. Vivrà da esule.
Sceglie di farsi randagio ai margini del fiume Po, barattando una sua opera con un piatto di minestra da coloro che incontra per caso.
In quelle desolate campagne Antonio Ligabue impara a relazionarsi con gli animali; con loro stabilisce una comunicazione.
Li guarda.
Li osserva.
Claudia Dell’Era
Leggi di più al link https://madmagz.com/magazine/2128676#/